Il Tempo ne
''L’inclinazione
di una foglia alla luce''
di
Tiziana Marini
Recensione di
Gemma Ravanello
Aprire
un libro, soprattutto di poesia, è sempre un andare incontro a qualcosa che ci
attendiamo riveli una qualche verità, o che ci illumini su qualcosa di cui
abbiamo bisogno. Leggiamo parole, versi, ed essi entrano in contatto con il
nostro mondo interiore.
Nell’aprire il
libro di Tiziana Marini incontro una prima poesia senza titolo che già mi
colpisce, già mi sembra di intuire il preludio all’intera opera. Proseguendo
con la lettura trovo una Poesia diversa nel libro, diversa dalle opere
precedenti in cui la percezione del dolore veniva mitigato un poco; qui, in
questo libro, un’ansia avverto che non si placa, una consapevolezza del vivere
in ogni situazione del dolore, la constatazione di un tempo che si assottiglia
davanti sempre di più e che non si può trattenere; sfugge la possibilità di un’altra
vita, ancor più dimenticata e persa, non più recuperabile per
altri frutti. E a sondare questa profonda inquietudine non è di certo
cosa da poco. Dice bene Cristina Sparagana, nella breve introduzione, che il
libro è nato dalle voci della tempesta. Una tempesta infatti
che sommuove tutto il libro, anche se Tiziana Marini sa come gestirla, come
ammansirla avvalendosi nella scrittura di una apparente pacatezza che è propria
delle emozioni contenute. Non vorrei però ricorrere a questo per sottrarmi a
scandagliare l’apparente equilibrio, anche se scandagliare fino in fondo
l’animo di un poeta non è possibile più di tanto, non è giusto, né servirebbe a
capire totalmente l’arte della sua poesia. In Conversation avec Picasso,
Parigi 1932, Cahiers d’Art, l’artista così si esprimeva sulla sua arte:
“Com’è possibile che uno spettatore viva un mio quadro come l’ho vissuto io? Un
quadro mi viene da molto lontano! Chissà da quale lontananza l’ho sentito, l’ho
visto, e l’ho dipinto…È possibile penetrare nei miei sogni, nei miei pensieri
che hanno impiegato tanto tempo per uscire alla luce?”. Eppure “il tanto tempo
per uscire alla luce” è pur sempre quel tempo lungo in cui ciò che si è
sedimentato nell’animo, tutto il mondo di sogni e di pensieri, esce fuori
rivelando in questo libro una voce di tempesta. Una delle prime poesie
del libro L’addio all’estate, che fa parte della prima sezione In
questa parte di tempesta, mi preannuncia un brivido d’ansia; S’indossava
un golf la sera / dopo la prima pioggia / a ferragosto. L’ansia che
percorre il libro è già presente in questi versi struggenti per ciò che cambia
rispetto alle estati passate, e per ciò che soprattutto si lascia: l’estate se
ne va, lascia il posto all’autunno che avanza, ma non è certo l’autunno che
avanza che porta l’inquietudine. È l’alternarsi che si ripete ogni anno, da una
stagione all’altra, da una stagione all’altra della nostra vita, che si fa
sentire fin nelle ossa; è L’addio, e non solo all’estate. È l’addio
triste, profondamente triste, con rondini / pronte a partire. / Anche se non
c’erano. Ed è rimpianto per una stagione che se ne va per sempre e per le
rondini che non ci sono più e che con la loro mancanza aprono anche uno
scenario su una Terra che cambia a causa di cambiamenti climatici
irreversibili, di cui soffriamo, e non sapendo veramente quanto. Perdiamo di
vista le vecchie leggi della natura, i suoi ritmi, le vecchie abitudini, il
golf la sera / dopo la prima pioggia, che ci assicuravano la quiete delle
permanenze nella vita. Dammi la soddisfazione / di soffrire dolcemente per
il tempo passato / e per quello futuro / di sfiorare le stelle quando nascono /
e quando muoiono, per viaggiare fino a noi / invitate alla cerimonia della
solitudine. Ma, purtroppo, almeno per quanto ne so io, non si soffre
dolcemente. E ho il dubbio che non ne soffra davvero dolcemente
nemmeno Tiziana se ascolto la sua implorazione. Sicuramente non
per alcuni dolori, e forse nemmeno per la stessa ragione di vivere. E di
vuoto in vuoto / si procede dal dolore:
partenza per un tempo che ci illudiamo ci sia ancora, di cui usufruire, per
avere la possibilità di dire addio alle cose.
Si arriva, ad un
certo punto della vita, nel quale non ci troviamo più a pensare solo al tempo
presente, passato, o a quello futuro, ma ad un tempo altro; un tempo senza di
noi, a com’era prima, poiché c’è stato senza ombra di smentita un
tempo in cui non c’eravamo, in cui non sapevamo nulla di cosa accadesse
giornalmente mentre stavamo per arrivare, e ci sarà anche un tempo in cui di
nuovo non ci saremo, di cui vorremmo sapere per seguire tutto ciò che lasciamo
dietro: gli affetti, le persone care, le cose. Questo è ciò che morde il cuore
più di tutto. Si avverte qui di Tiziana la sensazione della futura mancanza dal
mondo Come l’ombra di un uccello / sul prato / precipitare nel diaframma /
del quotidiano addio alle cose / anteprima della morte. Con pochi versi
viene così definito il vero dramma dell’uomo, nascere, conoscere, per poi
morire. Ma arrivare a questa consapevolezza, realizzare a come ci sentivamo
vecchi / per scoprire com’eravamo giovani è realizzare davvero che il tempo
è trascorso senza che, in fondo, ce ne accorgessimo, e ci chiediamo magari un
po’ scherzando per esorcizzare l’amarezza: C’è ancora tempo / per una cena
elegante?
Non si strappano più briciole
al tempo, non si assaporano più come una volta, non riusciamo più ad
assaporarle perché sappiamo che di tempo non ce n’è più tanto per godere, in
intatta gioia, certi momenti. Di poesia in poesia, Tiziana ci rimanda al
pensiero costante del tempo che fugge, a volte sembrerebbe sorriderne per
smorzare la tristezza, ma non ci inganna dal momento che ci fa osservare Pensa
agli alberi / mentre li guardi cambiano colore, né possiamo rimanere illusi
se ci avverte Lasciare andare un mattino d’autunno / le foglie. / Lasciare
che corrano negli angoli / senza vento / nelle pieghe dell’aria / prima che
l’ossigeno le decomponga / in altra sostanza / prima del loro destino di
ruggine. Nella leggerezza delle foglie che corrono l’ossigeno è l’insidia
che le decompone, che le trasforma in ruggine; è inevitabile la fine delle
foglie, la caduta loro in autunno è tema noto per lasciarsi andare alla
malinconia, a pensieri sulla caducità della vita, al destino di tutti. Il
destino di tutti è in agguato, e vivere finché la vita corre nell’aria, finché
c’è tempo, è forse imparare ad accettarlo. Non è infatti di una natura dolce e
generosa esprimersi perentoriamente sui lati negativi di una vita che si
esaurisce. Tiziana cerca di alleggerirne il peso quanto può; se a cambiare il
colore agli alberi è un movimento delle cose / che muove l’universo è
questo stesso movimento che fa sì che qualcosa poi ritorna, e ciò
fa intuire che questo qualcosa sia un qualcosa di positivo, che forse ci
illumina, nonostante l’angoscia del tempo che fugge inesorabile. E Camminare
accettando la fragilità / di fronte al dolore diventa
allora il decalogo di Tiziana, conoscere l’addio e meritare la
vicinanza per non perdersi nulla, per sorprendersi per la grazia dei
campi, per sorprendersi infine di tutto. Ed è così evidente la mia
fragilità / che tu riveli, ammette, rivolgendosi a Fusino, il gatto che sta
per lasciarla, il suo stellino stanco. C’è da accettare anche questa di
fragilità, e non è facile.
Rimane
pur sempre intensa la tristezza per ciò che riguarda la fine delle feste
verso i mesi / indefiniti di primavera quando Mestamente si spenge
l’albero / e si ripongono gli addobbi / nella carta velina anche se
si parla di luce nella poesia dedicata a Angela,
fiore di luce. Il riferimento all’albero, agli addobbi riposti
nella carta velina, con cura, per l’anno seguente, riempie l’animo di angoscia:
ci sarà un anno seguente, scarteremo di nuovo gli addobbi, ci sarà ancora (per
noi) l’albero con le luci? Angela non c’è più, ma la sua presenza è Fiore di
luce. Troviamo per un attimo una speranza; così come per Angela anche noi
possiamo pensare di non cadere nel vuoto, di rimanere ancora nella vita degli
altri, Ma non nevica per davvero / e il vuoto non c’è, al suo posto c’è
la luce, e la luce è pienezza, uno spazio che ci colma, anche se doloroso. Si
dice sempre che una persona cara scomparsa lascia un vuoto ma, a pensarci bene,
proprio perché se ne soffre, perché occupa tutti i nostri pensieri, determina
in noi invece “un pieno”, un pieno che dura nel tempo e mantiene vivo il
ricordo, mantiene presente la persona cara.
E il richiamo alle feste del
Natale mi riporta al pensiero del tempo, come d’altronde verte la mia nota sul
libro. Le feste natalizie che fanno da spartiacque tra i mesi che sono
arretrati nell’anno passato e i mesi che vengono avanti nel nuovo anno sono
emblematiche del passaggio del tempo che lascia il passato per entrare nel
futuro. Nessuna festa si abbandona con tanta tristezza come quella del Natale.
Il rammarico di interrompere giorni di letizia, di dover aspettare un nuovo
anno prima di riviverli, è sentito intensamente dai bambini, e da noi
attraverso di loro anche se non con la stessa illusione di favola. Ma tornare
da adulti al ricordo di quei giorni è un rimpianto cocente, l’infanzia è
volata, il tempo è volato, ed ora? Ricordare per esempio / un bacio
lontanissimo / volerlo ancora dare.
Il tempo, in questo libro di
Tiziana Marini, è un protagonista. Ovunque si manifesta, che sia il passato, o
il futuro, o un tempo altro; e il tempo che non è sempre The Great Healer, il
guaritore, come pensavamo che fosse ingenuamente, non ci consente di consolarci
di tutto ciò che non abbiamo colto a sufficienza. Un po’ tardi si è scoperto
che nel poco tempo a nostra disposizione, per noi – lampi d’aurore
boreali– il dimenticare era inevitabile. Siamo treni e stagioni /
lampi d’aurore boreali. / Per questo riempiamo oggi le mani / di gesti e di
nomi, mai abbastanza / se si possono dimenticare.
Ogni
verso di questo illuminante libro di Tiziana è frutto di sue profonde
meditazioni, di un lavoro di scandaglio nel mondo sotterraneo di nostalgie,
amarezze e rimpianti, tirato a forza da lei in superficie, con sincerità, quasi
dovuto a sé stessa, quasi a ricuperare possibilmente il non ricuperabile. Il
lavoro di un libro, in un certo senso, può essere paragonato al lavoro di
restauro di un oggetto rotto, dove però a subire l’arte del restauro è
l’anima in frantumi. Per restaurare Si parte dai
cocci, radunati, contati ad uno ad uno / incollati evidenziando
l’andamento della crepa. Le suture sono le cicatrici, che volenti o no, ci
siamo procurati, ma sono di Oro, a guardarle bene con indulgenza.
Il
valore di un poeta, di un artista, è quello di saper ricomporre “i cocci” tra
le mani, l’anima in frantumi, di cucire le ferite, e Tiziana, con tenacia
ammirevole, è riuscita a rendere preziose quelle linee di frattura / le
imperfezioni d’edera rampicante. E se, come dice lei stessa nella nota
in fondo al libro, era sua intenzione fare di un fiore un giardino, di un verso
poesia e vita, partendo dalla tempesta e dal dolore, l’obiettivo è stato
raggiunto.
Non senza però, per me, molta
commozione.
Gemma Ravanello
Novembre 2024