lunedì 30 luglio 2018

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 Copyright 2019 © Tiziana Marini

Inediti di Tiziana Marini su Poetarum Silva



https://poetarumsilva.com/2018/07/16/tiziana-marini-inediti/




La penombra è viva

Sediamoci davanti ai pini.
c’è la brezza che riluce
e di resina ogni ago veste
il tramonto
com’era un tempo
come sarà fra vent’anni.
Eppure
pesa  una rondine il cielo
cambia in notte presto
e non c’è tempo d’imparare
che più degli uomini durano
le cose.
Solo la penombra è viva
quel lento diventare luce del buio
quando il sole torna
nel vuoto spazio tra due parole.

Il flauto-vento

Tornare indietro
cercare una nuvola
sul ciglio del cuore
e l’impronta del cielo.
Le carezze rimaste a metà
o solo pensate
la lieve allegria
troppo a lungo invisibile.
Cercare nell’erba
il brillare del sole
lo specchio smarrito.
Prendersi cura di sé
quel tempo, tanto o poco
che basta
che non sia troppo
che non si resti
a lungo soli.
E infine tornare
flauto-vento sul mare
a resettarlo.
Finalmente.

Il tempo di un pane

È giunto il tempo di lasciare l’ombra
all’abitudine
di rifugiarsi in lei
di allenare le mani alle assenze
alla carezza che trasforma il vuoto in te.
Vai che si fa sera presto
e le spighe durano il tempo di un pane.


Lentamente, in giardino

Quando le foglie sono finite
e le nuove ancora lontane
in quel riposo d’attesa
senza misura
quando la casa
avrà mille ore dispari
da passare
e per un’ombra improvvisa
per un rumore familiare
d’erba calpestata
o di fiore sbocciato anzitempo
pensandoti qui
io guarderò fuori
ti vedrò camminare
lentamente in giardino
tra la mimosa  e la camelia
fiorite a gennaio
nel solco preciso del tuo ricordo.

TIziana Marini è poetessa e pittrice. Nata a Montalcino, ha studiato Lingue e Letterature straniere presso l’Università La Sapienza di Roma. Per alcuni anni si è dedicata all’insegnamento. Come poeta ha ricevuto numerosi riconoscimenti in vari premi letterari. Suoi testi poetici sono presenti in molte riviste letterarie, antologie e siti di letteratura. Ha pubblicato le raccolte di poesie Solo l’anima vede (Pagine, 2011) e Passa il cuore sulla terra (Tracce, 2014), entrambe con la prefazione di Plinio Perilli e Lo scatto della lucertola (La Vita Felice, 2016) con la prefazione di Sabino Caronia. Si dedica da alcuni anni alla fotografia ricevendo numerosi consensi. È autrice di racconti, prefazioni, traduzioni, recensioni di cinema e letteratura. 


giovedì 5 luglio 2018

''Ai bordi di un quadrato senza lati'' di Marco Onofrio (Marco Saya Ed. 2015) - Nota di lettura di Tiziana Marini





Ai bordi di un quadrato senza lati (Marco Saya Edizioni, 2015) è una intensa raccolta di poesie di Marco Onofrio, poeta, scrittore, saggista e intellettuale a tutto tondo. Il titolo ben rappresenta le due anime, le due ideali sezioni del libro, poiché il quadrato è la figura geometrica più “terrena’’, simbolo dell’immanenza per antonomasia, ma è anche, nella fattispecie, nel suo non avere lati, nella sua apertura, un forte simbolo di trascendenza, ancor più del cerchio, considerato da sempre simbolo del cielo e dell’infinito. Insomma, un quadrato senza lati è forma e aspirazione alla libertà. L’autore, ponendosi ai bordi di questo quadrilatero illimitato, sottolinea con grande efficacia la sua posizione intermedia, un dentro-fuori che è ricerca personale e sociale, su entrambi i versanti, ma ovunque tale posizione ci appare piena e totale nel suo legame con la terra-finitezza-realtà e al tempo stesso con il cielo-spirito-infinito. E se nel primo legame prevale una poesia viscerale, civile, a tratti teatrale e ironica, e una visione del mondo orrorifica ed espressionistica, a rappresentare il caos dell’elemento terreno, nel secondo la poesia si fa lirica e metafisica. Dall’uno all’altro polo si snoda un percorso attraverso follia-ribellione-fango, a spezzare i lati ideali del recinto. Emblematici in tal senso sono i versi «Basterebbe uno scatto di follia / Una bestemmia di ribellione / La forza di volerci come siamo / aldilà di tutto…».
Le prime poesie della raccolta sono dunque dense di visioni espressionistiche ed apocalittiche («…Ardeva dappertutto in galle putri / intriso il Finimondo alluvionato / dai botri più reclusi ai vasti abissi…») che ci raccontano con grande intensità visionaria un mondo in cui, come in una bolgia dantesca, Dio non c’è e in cui «… rotoliamo nel fango / …Ingrassiamo di dolore / per la baldoria guasta / di una festa grande / che verrà… », prigionieri di una natura ormai «…costretta e rovinata / in dissolvenza». Qui il linguaggio dell’autore si fa specchio del caos, con grande originalità e forza espressiva. Nella seconda ideale sezione prevale invece una poesia metafisica che esalta, con grande tensione drammatica e spiritualità, i temi cari all’autore, fra i quali ricordiamo quello dell’acqua in tutte le sue declinazioni più suggestive («…l’acqua della sera / ormai combusta…»), quello del vuoto («…Anima di fiamma salirai / di vuoto in vuoto nell’eterno / essere increato…»), del tempo («Questo insensato scorrere di giorni / tralucenti ombre dentro il cielo…»), e della luce («…Ogni transito del giorno / ha la sua ragione /: / la sua luce…»). Tutti concorrono a dare voce ai temi dell’attesa («…È la vigilia / permanente di una festa / che non arriva mai…»), dello sguardo («…come la luce dentro gli occhi / di Francesca, qualche giorno fa…»), del mistero della vita e della verità («…Quale tra le vie che io sono / nell’ignoto buio dei miei fatti / stabilirono i destini come giusta?…»), ed infine del viaggio («…la meta resta chiusa, velata / dentro un nuovo inizio»).
Ai bordi di un quadrato senza lati può essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio viaggio nel viaggio della vita, in cui, tra passione ed intelletto, si dipana un percorso non alla ricerca di verità assolute e certezze, quanto piuttosto di angoli di visuale privilegiati che ci consentano di focalizzare la realtà nelle sue eterne ma soprattutto attuali contraddizioni. È la visuale che si ha dal bordo e non dal centro, la posizione privilegiata, quella che ci permette una visione più ampia, uno sguardo interiore attento e profondo, dai poteri illimitati, nutrito dalle incertezze e dai dubbi, dalla voglia di conoscere e di conoscersi, così come fa il nostro autore allorché chiede a se stesso risposte ai continui perché della vita («E il senso?»; «Perché si vive? A chi si scrive?/ Dov’è l’esito del tempo? Il centro misterioso delle ore?»; «Che cosa può l’amore? / Fin dove può arrivare?»). Non c’è una risposta a questi interrogativi, tuttavia una certezza esiste e Onofrio ce la ricorda in questi versi: «Grazie per averci emozionato! / Per averci ricordato che saremo / in ragione dell’amore che avremo / dato… perché l’uomo, è più forte della morte / che lo uccide, e può salvare / e salvarsi, vivere e far vivere / per sempre». Dunque ci spetta ciò che abbiamo donato per una legge morale che non ammette attenuanti e sotterfugi, chiara e imprescindibile.
Con l’intensità della fotografia in bianco e nero, un ritmo incalzante e rêveries di grande potenza, questa silloge esprime non solo lacerazioni e smarrimenti, ma anche un profondo amore per la vita vissuta nella sua immediatezza, nella quotidianità e nella semplicità delle piccole cose, come ben rivelano questi versi delicati e propositivi: «…Guarderò alle rose, ai fiori blu / che sbocciano dai rovi scheletriti. / Metti qualcosa di rosso, stasera / usciamo: andiamo a far baldoria / ché apparteniamo al mondo / e siamo vivi». Una poesia di grande forza, quella di Marco Onofrio, che spezza e crea legami profondi nell’anima del lettore. Una poesia colta e raffinata, legata alla tradizione eppure distante da essa, tanto che pare limitativo ogni paragone, ogni avvicinamento seppur vago ad altri autori, sebbene sia facile pensare per esempio a Bukowski, perché è nell’originalità la cifra più importante di questo poeta che dice di sé, nella poesia che offre il titolo alla raccolta: «Beati quelli che si accontentano / delle nuvole: io per me, basto / alle stelle…»; e ancora: «Lo sguardo di Odisseo. Il mio. / Di viaggiatore che prende commiato…».
In conclusione, due anime che si completano sono i motori di questa silloge, una tela di ragno ricamata sulla realtà i cui punti di connessione, gli architravi portanti sono il tempo, lo spazio, la bellezza, il vuoto, l’infinito, il dolore. Aperta in un punto, in corrispondenza di un sentire pieno di speranza che anima sempre il nostro autore, questa tela di ragno permette all’infinito-fuori e all’infinito-dentro di dialogare e costruire, attraverso la parola, un terzo infinito, l’iperinfinito della vera poesia: quella che forse può, partendo dalle viscere della terra, dalle nostre viscere, cambiare il mondo attraverso un sentire chiaro e costruttivo.
 Tiziana Marini



domenica 1 luglio 2018

''Il prato dove gira la tempesta'' nella lettura di Andrea Mariotti


Il prato dove gira la tempesta


Al vento degli anni
non perdono la fretta
la lucidità del ricordo
le lune e i soli irripetibili
le finestre rotte.
Quanti di questi anni invecchiati
ho davanti
di che colore sono gli scalini
non lo posso sapere
ma ho tutto a portata di mano
paura e stupore
Il prato dove gira la tempesta
e si accavalla l’erica
le scarpe lasciate
davanti alla porta
il tumulto della primavera
e subito dopo gli alberi
trascinati dai sogni.
Ora alla loro ombra allungata
mi sovrappongo, meridiana
con tutto il mio sempre.


Poesia di Tiziana Marini 2017


The meadow where  the storm turns

I don't forgive the wind
the rush of years
the clarity of memory
the unique moons and suns
the broken windows.
How many of these aged years
i have in front of me
what colors are the steps
i don't know
but i got everything where i stand
fear and wonder.
The meadow where turns the storm
and the heather ovelaps
the shoes left 
outside the door
the commotion of spring                          
and just after the trees
drugged by dreams.
Now on their  extended shadow
I stay, me, sundial
with my forever. 

(trad. Tiziana Marini)              


Dal titolo ossimorico nel dichiarare la sua natura tutt’altro che pastorale, questa poesia di Tiziana Marini si offre alla lettura con innegabile bellezza. Ritmo incalzante delle immagini in essa, riferite agli astri e ai ricordi, laddove tutto è “a portata di mano” in virtù di un flusso poetico potentemente connotato in chiave personale. In effetti solo la conquista d’una musica interiore rende veramente degno di tale nome il verso libero, e questo è il caso, non da oggi, della Marini. Sicché i versi centrali della lirica “Il prato dove gira la tempesta/ e si accavalla l’erica/ le scarpe lasciate/ davanti alla porta…” risultano esemplari in merito, con il fluido nonché rigoroso accavallarsi di essi. Sotteso al ductus, un uso efficace della enumeratio, a dischiudere piani visibili e non della percezione; al punto di dover parlare, qui, d’una poesia di grande forza endogena, a maglie strette. Una folla innumerevole di poeti ha preso troppo alla lettera l’esortazione di Montale ad andare verso la prosa (schivandola però scrivendo versi, chiosava il grande Genovese). Ebbene, la poetica di Tiziana Marini appare felicemente lontana da tale trappola, animata com’è da tensione autentica (la lirica in oggetto costituendone robusto documento). Siccome poi la buona poesia possiede valenza d’ipertesto, ecco che proprio il Montale della “bufera che sgronda sulle foglie” mi è venuto in mente leggendo Il prato della Marini, soprattutto per l’uso della suddetta enumeratio e conseguente dinamismo d’immagini. Il che naturalmente nulla toglie alla singolarità della voce di una poetessa solo in apparenza semplice e fruibile.

Andrea Mariotti

P.s. in foto, il dipinto “Il vestito stellato”, 2010, della stessa Tiziana Marini


http://www.andreamariotti.it/