lunedì 27 maggio 2019

Omaggio ad Alberto Toni di Plinio Perilli




OMAGGIO
ad Alberto Toni



ad Alberto, e a tutti i miei giovani, coetanei amici poeti
di allora, svariatamente indimenticabili: Valerio Magrelli,
Marco Palladini, Marco Caporali, Giovanna Sicari,
Alessandro Ceni, Marcella Corsi, Gian Ruggero Manzoni,
Marco Tornar, Fabio Ciriachi, Gabriella Sica,
Enzo Di Mauro, Angelo Scandurra, Paola Zampini,
 Luigi Amendola, Stefania Portaccio, Daniele Pieroni,
Silvia Bre, Antonella Anedda, Daniela Attanasio,
Marco Guzzi, Lello Voce, Tommaso Ottonieri,
Paola Febbraro, Isabella Vincentini...



   Conoscevo Alberto Toni (Roma, 1954 - 2009), e gli ero amico, da tantissimi anni, almeno dalla metà ancora dolente, angustiata, e poi dal finire ben più speranzoso, fervoroso, degli '80, quando insieme si cominciava a scrivere, a fermare tempo e sogni irrequieti, nostalgie mai sazie...
   Quando nell'inverno 1988/89, invitati da Elio Pecora, ci trovammo – ristretto, baldo manipolo di Voci Nuove – a leggere i nostri primi versi sul piccolo palcoscenico romano del Teatro Due (e l'ho anche scritto in RomAmor, "Come eravamo" 1968-2008), davvero insomma tradivamo, arringavamo, la densa emozionata voglia di un nuovo sguardo... Alberto Toni titolò La chiara immagine, una sua fresca, radiosa silloge del 1987 (edita da Rossi & Spera gemellata ad opere di Remo Brindisi), omeopatico dissipante antidoto d'ogni malessere, d'ogni caligine:

   Saluti l'aria come un evento
   della stagione buona al mio arrivo.
   Nel cammino degli occhi
   il senso nuovo fa luce.
   Poi non importa dei lontani viaggi
   di assenza; anche il tempo mi accorgo
   è brevissimo della sfida.
   L'errore che rallenta
   non è ferita di sempre:
   apre la terra della conoscenza.

   Molti anni passarono, e altrettanti suoi buoni libri. Anzitutto, l'incanto adolescente della sua Partenza (Empiria, Roma, 1988); partenza verso il mondo dei grandi, ma anche la "Pratica d'equilibrio: la natura / dell'intelletto"; eternamente poetico, "il peso di un mitico silenzio, / corteggiando il piacere della conoscenza".

   Qualcosa che ho visto crescere
   come il sorriso sulle labbra,
   come l'ultima estate,
   sulla sponda invocata
   e mai raggiunta.

   Queste parole in aggiunta
   al sentimento
   ora servono ancora
   all'eterno volo sulla terra.
   Lo smarrimento finisce
   in un gioco di perle
   ......................................

   In Dogali (Empirìa, Roma, 1997), che pure parte dalla Storia, anche quella triste e annientata, e ad essa torna (Morti coprono il terreno... Muti eroi, composti in coro...), dopo un'eccellente profusione di "Sonetti del giorno e della notte" ("È il poeta nudo che grida, un atimo prima dell'annientamento," –  annotò Renzo Paris – "il desiderio della speranza, della parola assoluta, neo-antica"), e testi-fulcro, ardui, rivelatori (come appunto "Dogali", ma anche "La notte di Amleto", o "Il segreto – Rimbaud", e la lettera in versi "A Dario Bellezza"), è in fondo un leopardiano, inveterato "Dialogo sulla Bellezza" – serrato ma romantico, tra "Il poeta" e "La donna" – che configura e ci affida l'ineludibile, agrodolce viatico per "Il tempo che viene":

   Non potrebbe che essere nelle cose
   possedute, l'ultima ora vissuta.
   Oh anima delle cose,
   i miei regali ogni giorno – e
   averli avuti è questo che importa.

*******

   Cambiò però via via lo scenario, l'orizzonte, il secolo, il millennio, il contesto, chiamiamolo il back-ground epocale. Vorticoso e irruento, ma certo non bastevole a togliergli ampia e coerente, dolce e caparbia voglia d'"Elegia" (leggiamo un vero e proprio inno corporale e creaturale, tratto da Alla lontana, alla prima luce del mondo, forse la sua raccolta più fascinosa, rapinosa – Jaca Book, Milano, 2009):

   Il corpo è qui, l'anima sta sopra, l'altezza
   non vista; eppure basta un niente per aprire
   il cancello, l'onda che ripercorre gli ultimi
   istanti, li rinserra, come fossero cent'anni
   di rose, cento comandamenti, cento volte prima
   della caduta. Noi siamo in attesa. ......................

   Lo salvò, lo salvava sempre la fede profonda in una Parola che fosse in se stessa benefica, addirittura taumaturgica – se illimpidita, inscenata di continuo, sul palcoscenico della vita, come dialogo inesausto, moderna operetta morale duettante, duellante, perché no?, tra l'anima e il corpo, cioè a dire la Poesia e la Storia, vecchi amici e sodali dell'Umano. Lo giurava già in Partenza:

   E tu parola rispondi,
   non sottrarti alle mie domande,
   scava una strada forte
   per i miei anni.

   Teatralità dell'atto, scriverà (Passigli, Firenze, 2004), a mo' di appassionata, ma anche agile, guizzante dichiarazione di poetica:

   Credo che la poesia, oggi più che mai, debba riconfigurarsi nella Storia. "Nel rovescio del mondo", per dirla con Gelman, dove "cresce il cosmo" e si impone una ragion d'essere forte e chiara. Poesia come spinta etica, "teatralità dell'atto" che ogni giorno si consuma negli infiniti quotidiani, da un capo all'altro del mondo.

venerdì 24 maggio 2019

''Ai miei versi scritti cosi' presto'' di Marina Ivanovna Cvetaeva


Ai miei versi scritti così presto 
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli demoni
nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
ai miei versi di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!

Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verra' pure il loro turno.
Marina Ivanovna Cvetaeva 
Koktebel, maggio 1913
(Traduzione di Pietro Antonio Zveteremich)
da “Marina Ivanovna Cvetaeva, Poesie”, Feltrinelli, Milano, 1979
∗∗∗
«Моим стихам, написанным так рано»
Моим стихам, написанным так рано,
Что и не знала я, что я – поэт,
Сорвавшимся, как брызги из фонтана,
Как искры из ракет,
Ворвавшимся, как маленькие черти,
В святилище, где сон и фимиам,
Моим стихам о юности и смерти,
– Нечитанным стихам!
Разбросанным в пыли по магазинам,
Где их никто не брал и не берет,
Моим стихам, как драгоценным винам,
Настанет свой черед.
Марина Ивановна Цветаева
Коктебель, 13 моя 1913
da “Цветаева Марина. Собрание сочинений в семи томах. Том 1. Стихотворения 1906-1920”, Терра, 1997

venerdì 10 maggio 2019

‘’Il sole forse’’ di Daniela Basti (LietoColle, 2013)





           


 ‘’Il sole forse’’ di Daniela Basti e’ una silloge di grande valore poetico,  umano e sociale in quanto ‘’voce’’ non dal ‘’dal carcere’’ ma ‘’del carcere’’, voce in prima persona della poetessa,  dei detenuti e di una  realta’ drammatica, con   un titolo che non assicura certezze, com’e’ giusto che sia, ma sicuramente apre possibilita’ e nuovi orizzonti, piu’ o meno vicini. L’opera ci racconta con poesie di grande impatto emotivo, dure e delicate al tempo stesso, di grande sintesi e coraggiose, l’esperienza dell’autrice, chiamata a stabilire, attraverso la scrittura e l’ascolto, un rapporto con i detenuti,  di arricchimento umano che si rivelera’ reciproco per scambio ed identificazione. Un’esperienza, si puo’ dire, che lascera’ il segno in tutti i protagonisti. In questa silloge, piu’ dello spazio chiuso, ristretto, ridotto al minimo della vivibilita’,  e’ importante la dimensione temporale.  Infatti il  tempo, fermo, statico stagnante dell’inizio, come quello segnato da un orologio scarico, riprende gradualmente a scorrere, va verso un probabile, intuito futuro, verso una  seppur sofferta e flebile  progettualita’ o comunque un’accettazione di se’. Ma non si va  solo verso un possibile  futuro perche’  il tempo  riprende a scorrere anche al passato ossia da dove si era interrotto nell’attimo preciso della colpa. Forse inizia una consapevolezza di se’ , un’elaborazione dell’errore, un recupero. Tutto cio’ attraverso un linguaggio / specchio, che va  dall’essenzialita’ iniziale  di uno sguardo tutto volto all’esterno, come a recuperare  dimensioni non claustrofobiche, dimensioni di liberta’ (perche’ questo e’ quello che conta), fino ad un linguaggio volto all’interno, verso dimensioni dell’anima, un’anima che si riappropria o cerca di riappropriarsi della liberta’ interiore, con tutti i rischi e fallimenti del caso, forse l’unica  davvero importante,  un linguaggio dunque che affiancando e ripercorrendo processi di pensiero  ben piu’ articolati, diventa esso stesso piu’ complesso.
La bella prefazione di Giovanna Stefancich sottolinea come la drammaticita’ del contenuto nasconda comunque un profondo messaggio di speranza che, come precedentemente sottolineato, si rivela anche nel titolo.


La silloge e’composta da 5 sezioni i cui nomi sono haiku: Sono civetta… Pini di mare… Brandelli vivi… La luna e’ piena… E lancio a sera… e si apre con la poesia corale in esergo che recita ‘’Noi siamo meno di un soffio di vento…’’ una poesia nella quale e’ il ‘’popolo del carcere’’ a parlare. Ma in questo coro ognuno puo’ ritrovare la sua voce, il ‘’popolo dentro’’ e ‘’il popolo fuori’’ non sono altro che due facce della stessa umanita’, contrapposta e fusa.
La prima sezione si apre con la poesia che racconta l’arrivo a Rebibbia di Daniela, in uno spazio e in  un tempo rarefatti, praticamente  inesistenti eppure imprescindibili e fortissimi.   L’Autrice in questi primi versi  rivive e ci fa vivere  il primo sguardo e lo stato d’animo che la accompagnano in questa sua missione con pennellate essenziali che ci descrivono uno scenario tra luogo concreto  e luogo dell’anima, in cui varcare la soglia  vuol dire  entrare nella vaghezza di un’atmosfera fatta di silenzio, poche cose, ferme, immutabili, come fossero li’ da sempre.
Nelle seconda sezione il paesaggio esterno del carcere  si contrappone a quello interno dell’anima. Il rumore dei cortili, lo scorrere indifferente ed inesorabile  del fiume Tevere da una parte  e il silenzio dei corridoi e delle celle che diventano spazio sacro, con gli oggetti che portano i segni dell’abbandono e dove aleggiano i fantasmi del passato, dall’altro. Il tempo del carcere non e’ segnato dall’orologio, ma dal passare delle stagioni, e questo vale non solo  per i detenuti ma anche per i secondini. Nella poesia ‘’Quando attraverso il grigio corridoio…’’ la poetessa descrive il timore che la pervade quando pensa di  violare quelle ombre, quelle sofferenze e quelle  solitudini.
Nella terza sezione la poetessa ci presenta i detenuti. Il primo e’ colui che  dopo le prime resistenze, esitazioni, paure, inizia ad aprirsi, ma il suo improvviso ricovero all’ospedale psichiatrico non permettera’ che il percorso continui. Per tutti il carcere e’ un utero protettivo, la vera solitudine e’ fuori. C’e’ poi chi ha voglia di aprirsi e desidera un’altra vita chi fara’ di tutto per ritornare in carcere una volta uscito,  chi si rende libero con la musica, chi inizia a scrivere di se’, chi ripensa agli affetti e alle cose lasciate. Anche un agente di custodia ha voglia di raccontarsi.
Nella quarta sezione parlano i detenuti. E’ una sezione onirica dove si alternano visioni di liberta’, cieli e spazi infiniti, desideri e sogni per sopravvivere.
Nella quinta sezione i detenuti si raccontano, si confessano e il linguaggio, diventato piu’ complesso, sembra riflettere i meccanismi del pensiero di chi si offre con piu’ chiarezza e indulgenza alla vita.  Sono dialoghi  tra se stessi e il mondo, un’ autoanalisi per meglio comprendersi, attraversata talvolta da  autolesionismo, perfino anoressia per fingere il controllo sulla propria vita, quasi a cercare nel sangue la prova del vivere. E infine la capacita’ di resistere, perfino la voglia di giocare spensieratamente a pallone, propositi,  paure e l’ultimo   ricordo da cui forse ricominciare.
Per concludere, dunque  ‘’Il sole forse’’ e’ un testo necessario che fa riflettere e che  colpisce dritto al cuore e coinvolge il lettore per la passione e la pietas con cui e’ stato scritto, a dimostrazione che la poesia puo’ essere ovunque anche laddove non penseremmo di trovarla, in quei luoghi ‘’dimenticati’’ e ‘’abbandonati’’ dei quali, sicuramente il carcere e’ l’emblema.

Tiziana Marini



''Eri cosi' fragile, spaurito,
bonaccia carica di intima tempesta.
Con voce gentile
narravi visioni pure.

Io sentivo la ricchezza e il dolore
di un pensiero oltre spazio e tempo,
vetro soffiato in bilico
tra senso e non senso.
Volevi e non volevi uscire.
Il fuori era la bocca dell'inferno,
nessuno ad aspettarti, a offrirti protezione.
Ti sei rinchiuso in cella,
in un ventre freddo, per te materno.
Io lo conservo ancora il tuo quaderno.
Daniela Basti (Da ''Il sole forse'' - LietoColle 2013)


                                                                                  (Foto di Tiziana Marini)





''La farfalla di Rembrandt'' nelle parole della poetessa Daniela Basti



(phTiziana Marini Copyright © 2019)


Leonardo da Vinci, nel suo Trattato della pittura, ci dice che ogni forma e  ogni corpo sono plasmati nel gioco dell’ombra e della luce e l’ombra è nella natura delle cose universali. Questo gioco dell’ombra e della luce colora e si ritrova tutto in questa silloge di Tiziana Marini, un’opera profondamente lirica, simbolica e metaforica, che ci indica come e quanto ogni sfumatura di ombra si integri con ogni sfumatura di luce. Le sue poesie sono una rivisitazione del cammino, del percorso della vita, immagini, flash, che si dipanano come fili di luce dalle anse, dalla penombra dell’intreccio dei ricordi. Dall’ombra e dalla penombra c’è la possibilità di cogliere meglio, di definire i contorni, le sfaccettature, le tracce di luce, di scovare, di ritrovare anche i raggi più esili, le orme più lievi e di ri-costruire le assenze sempre presenti nella nostra anima e che continueranno sempre a illuminarci, a colorare della loro luce  il nostro cammino con la nostalgia di ciò che non potrà più tornare e la dimensione dell’accettazione. Le metafore delle foglie, degli alberi, degli eventi naturali, si dispiegano in un andirivieni di immagini nelle quali l’osservazione della natura, né benigna né matrigna, rasserena tutte le inevitabilità esistenziali degli uomini. Tutte le poesie, di un impalpabile spessore, mostrano, in una dimensione anche leopardiana, il nostro più o meno affannoso impegno nel legare i fili più o meno sottili di luce e dalla nostra penombra, accarezzarli, cullarli, custodirli, con disperante speranza.

venerdì 3 maggio 2019

''Mattino'' di Pierluigi Cappello


Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta
tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie, l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto
siamo la neve dentro le cose
l’occhio cui tutto allucina, tutto separa
e vivere è un minuscolo posto nel mondo
dove stare in giardino.
da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti editore (Milano,2010)