‘’Il sole forse’’ di Daniela Basti e’ una
silloge di grande valore poetico, umano
e sociale in quanto ‘’voce’’ non dal ‘’dal carcere’’ ma ‘’del carcere’’, voce
in prima persona della poetessa, dei detenuti
e di una realta’ drammatica, con un
titolo che non assicura certezze, com’e’ giusto che sia, ma sicuramente apre
possibilita’ e nuovi orizzonti, piu’ o meno vicini. L’opera ci racconta con
poesie di grande impatto emotivo, dure e delicate al tempo stesso, di grande
sintesi e coraggiose, l’esperienza dell’autrice, chiamata a stabilire, attraverso
la scrittura e l’ascolto, un rapporto con i detenuti, di arricchimento umano che si rivelera’
reciproco per scambio ed identificazione. Un’esperienza, si puo’ dire, che lascera’
il segno in tutti i protagonisti. In questa silloge, piu’ dello spazio chiuso,
ristretto, ridotto al minimo della vivibilita’,
e’ importante la dimensione temporale. Infatti il tempo, fermo, statico stagnante dell’inizio,
come quello segnato da un orologio scarico, riprende gradualmente a scorrere,
va verso un probabile, intuito futuro, verso una seppur sofferta e flebile progettualita’ o comunque un’accettazione di
se’. Ma non si va solo verso un
possibile futuro perche’ il tempo riprende a scorrere anche al passato ossia da
dove si era interrotto nell’attimo preciso della colpa. Forse inizia una
consapevolezza di se’ , un’elaborazione dell’errore, un recupero. Tutto cio’
attraverso un linguaggio / specchio, che va dall’essenzialita’ iniziale di uno sguardo tutto volto all’esterno, come
a recuperare dimensioni non
claustrofobiche, dimensioni di liberta’ (perche’ questo e’ quello che conta),
fino ad un linguaggio volto all’interno, verso dimensioni dell’anima, un’anima
che si riappropria o cerca di riappropriarsi della liberta’ interiore, con
tutti i rischi e fallimenti del caso, forse l’unica davvero importante, un linguaggio dunque che affiancando e ripercorrendo processi di pensiero ben piu’ articolati, diventa esso stesso piu’
complesso.
La
bella prefazione di Giovanna Stefancich sottolinea come la drammaticita’ del
contenuto nasconda comunque un profondo messaggio di speranza che, come
precedentemente sottolineato, si rivela anche nel titolo.
La
silloge e’composta da 5 sezioni i cui nomi sono haiku: Sono civetta… Pini di
mare… Brandelli vivi… La luna e’ piena… E lancio a sera… e si apre con la
poesia corale in esergo che recita ‘’Noi siamo meno di un soffio di vento…’’
una poesia nella quale e’ il ‘’popolo del carcere’’ a parlare. Ma in questo
coro ognuno puo’ ritrovare la sua voce, il ‘’popolo dentro’’ e ‘’il popolo
fuori’’ non sono altro che due facce della stessa umanita’, contrapposta e
fusa.
La
prima sezione si apre con la poesia che racconta l’arrivo a Rebibbia di Daniela,
in uno spazio e in un tempo rarefatti,
praticamente inesistenti eppure
imprescindibili e fortissimi. L’Autrice in questi primi versi rivive e ci fa vivere il primo sguardo e lo stato d’animo che la
accompagnano in questa sua missione con pennellate essenziali che ci descrivono
uno scenario tra luogo concreto e luogo
dell’anima, in cui varcare la soglia
vuol dire entrare nella vaghezza
di un’atmosfera fatta di silenzio, poche cose, ferme, immutabili, come fossero
li’ da sempre.
Nelle
seconda sezione il paesaggio esterno del carcere si contrappone a quello interno dell’anima. Il
rumore dei cortili, lo scorrere indifferente ed inesorabile del fiume Tevere da una parte e il silenzio dei corridoi e delle celle che
diventano spazio sacro, con gli oggetti che portano i segni dell’abbandono e
dove aleggiano i fantasmi del passato, dall’altro. Il tempo del carcere non e’
segnato dall’orologio, ma dal passare delle stagioni, e questo vale non solo per i detenuti ma anche per i secondini. Nella
poesia ‘’Quando attraverso il grigio corridoio…’’ la poetessa descrive il
timore che la pervade quando pensa di
violare quelle ombre, quelle sofferenze e quelle solitudini.
Nella
terza sezione la poetessa ci presenta i detenuti. Il primo e’ colui che dopo le prime resistenze, esitazioni, paure, inizia
ad aprirsi, ma il suo improvviso ricovero all’ospedale psichiatrico non
permettera’ che il percorso continui. Per tutti il carcere e’ un utero
protettivo, la vera solitudine e’ fuori. C’e’ poi chi ha voglia di aprirsi e
desidera un’altra vita chi fara’ di tutto per ritornare in carcere una volta
uscito, chi si rende libero con la
musica, chi inizia a scrivere di se’, chi ripensa agli affetti e alle cose
lasciate. Anche un agente di custodia ha voglia di raccontarsi.
Nella
quarta sezione parlano i detenuti. E’ una sezione onirica dove si alternano
visioni di liberta’, cieli e spazi infiniti, desideri e sogni per sopravvivere.
Nella
quinta sezione i detenuti si raccontano, si confessano e il linguaggio,
diventato piu’ complesso, sembra riflettere i meccanismi del pensiero di chi si
offre con piu’ chiarezza e indulgenza alla vita. Sono dialoghi
tra se stessi e il mondo, un’ autoanalisi per meglio comprendersi,
attraversata talvolta da autolesionismo,
perfino anoressia per fingere il controllo sulla propria vita, quasi a cercare
nel sangue la prova del vivere. E infine la capacita’ di resistere, perfino la
voglia di giocare spensieratamente a pallone, propositi, paure e l’ultimo ricordo da cui forse ricominciare.
Per
concludere, dunque ‘’Il sole forse’’ e’
un testo necessario che fa riflettere e che colpisce dritto al cuore e coinvolge il
lettore per la passione e la pietas con cui e’ stato scritto, a dimostrazione
che la poesia puo’ essere ovunque anche laddove non penseremmo di trovarla, in
quei luoghi ‘’dimenticati’’ e
‘’abbandonati’’ dei quali, sicuramente il carcere e’ l’emblema.
Tiziana Marini
Tiziana Marini
''Eri cosi' fragile, spaurito,
bonaccia carica di intima tempesta.
Con voce gentile
narravi visioni pure.
Io sentivo la ricchezza e il dolore
di un pensiero oltre spazio e tempo,
vetro soffiato in bilico
tra senso e non senso.
di un pensiero oltre spazio e tempo,
vetro soffiato in bilico
tra senso e non senso.
Volevi e non volevi uscire.
Il fuori era la bocca dell'inferno,
nessuno ad aspettarti, a offrirti protezione.
Il fuori era la bocca dell'inferno,
nessuno ad aspettarti, a offrirti protezione.
Ti sei rinchiuso in cella,
in un ventre freddo, per te materno.
Io lo conservo ancora il tuo quaderno.
in un ventre freddo, per te materno.
Io lo conservo ancora il tuo quaderno.
Daniela Basti (Da ''Il sole forse'' - LietoColle 2013)
(Foto di Tiziana Marini)
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