sabato 17 agosto 2019


Riverberi di sole
sulle grandi terrazze a mattonelle.
Un triciclo
una sedia
i panni stesi al filo
l’odore del sapone giallo
e i ragni rossi, veloci
sulla pietra dei cornicioni.
Piccio, stringiamo la vita fra noi
senza fessure
come chi pensa di non essere morto
per quando non ci sarà, ora che c’è.

I treni che salvano
sono passati in silenzio
al limite dell’udibile.
Ed è un bene il male
chiamato espiazione.
Fuggire  senza rumore ci spetta
con il segno degli occhiali sul naso
con gli spigoli delle fotografie
vecchie nel cuore.


Tiziana Marini (da ''La farfalla di Rembrandt'' Ed. Ensemble, 2019)



lunedì 22 luglio 2019

L'abitudine degli occhi'' (Passigli, 2015) di Monica Martinelli



‘’L’abitudine degli occhi’’ (Passigli, 2015) di Monica Martinelli, letta da Tiziana Marini

‘’L’abitudine degli occhi’’ (Passigli 2015), intensa raccolta poetica di Monica Martinelli, si offre al lettore con un  titolo cosi’ particolare e interessante  da renderne necessario l’approfondimento. Scrive l’Autrice in uno dei testi più emblematici della  silloge: ‘’…Penso non sia il cambiamento / ma l’abitudine / l’unità di misura /  dei viventi / ciò che ci rassicura  e ci consola / ciò che ci viene naturale fare…’’, illuminandoci cosi’, sul suo significato. L’abitudine altro non è che la predisposizione propria dell’essere umano ad assuefarsi a tutto,  forse per quelle leggi fisiche e meccaniche che governano l’universo intero alle quali la Martinelli fa spesso riferimento. Il nostro sguardo, (e per estensione tutti i sensi), percepisce il mondo secondo l’ attitudine salvifica dell’ esperienza ripetuta che, attenuando la forza delle emozioni,  rende queste   piu’ sopportabili, come se il  ‘’ dolore diventasse meno doloroso’’ quando ci abituiamo ad esso.   L’abitudine è  quindi un vero toccasana, un meccanismo di difesa innato,  che ci permette di  tollerare anche la sofferenza più estrema e di sopravvivergli e, estremizzando, come dice la Martinelli, farci perfino intuire   da quale parte cadrà una foglia.. ‘’…E’ come seguire la danza / di una foglia nel vento / e indovinare da quale parte cadrà ‘’’, secondo una vera e propria  teoria dell’abitudine come forma di conoscenza.  Eppure, come si apprende leggendo le varie sezioni in cui è suddiviso il libro, dai titoli  suggestivi ed efficaci  (Fisiologia del dolore, Chimica dei sentimenti, Atteggiamento del corpo,  Meccanica dei passi e delle foglie, Fisica del quanto e del come,  Geologia delle case e delle cose, Biologia dell’indifferenza), non tutto è cosi’ facile e scontato perchè in qualsiasi momento l’imprevisto può sorprenderci  con la sua incertezza destabilizzante:  l’abitudine infatti , sebbene sia ‘’l’unica scienza esatta che regola la nostra vita’’, è solo un tentativo di salvezza. Se questo filtro s’inceppa la conseguenza è la sofferenza ‘’ …Arriva all’improvviso / diventa bestia potente /smaniosa di crescere / e porta le cellule a impazzire / per volontà d’espansione…’’, e quindi   ‘’ …Era  meno penoso essere cieca…’’ come scriveva la Dickinson e come ci ricorda Monica  in quanto, alla fine,  anche   la sofferenza è abitudine ‘’ …E poi ci si affeziona anche al dolore / all’ospite sgradito / ignaro di solitudine.’’  Eppure, a pensarci bene, è proprio dal  superamento dell’abitudine che nasce la vera vita ‘’…nello spazio tra respiro e silenzio / la vita e’ ciò che capita  / magari un intralcio li’ a caso…’’  perchè nel bene e nel male vivere è essenzialmente  emozionarsi  e l’emozione puo’  nascere solo da un elemento imprevisto  che sconvolge ogni tattica difensiva, conscia o inconscia che sia. Possiamo dire dunque che l’imprevisto ci fa soffrire ma almeno ci rende vivi perchè  per vivere davvero,  dobbiamo attraversare anche il dolore, accettandolo  o combattendolo, ma comunque  confrontandoci con esso. Certo infrangere l’abitudine mette a nudo anche  i nostri limiti e la caducità del mondo. Scrive a questo proposito  la Martinelli ‘’…Ma niente si conosce / se non l’attimo d’una farfalla.’’ oppure ‘’…Sulla felicità si puo’ solo scommettere …’’ e ancora ‘’…Ma vedere è subire in permanenza / non si può scegliere cosa guardare / forse possiamo solo comprendere / la differenza tra ciò che merita attenzione / e ciò che fa piangere.’’ Sono versi di grande forza, che sottolineano l’ ineluttabilita’ della vita  e l’inquietudine dell’  essere umano, una creatura  comunque sola e malinconica,  che  talvolta  riesce a guardare il mondo con ironia, ma più spesso è rassegnata per volonta’ della ragione ad un  meccanicismo senza soluzione, di cui sono specchio certi automatismi e rituali,  e  nel quale però anche il solo paragonarsi, per esempio,  al mare può diventare  un atto liberatorio . Accontentarsi, questo ci e’ concesso.  ‘’ Il mio pensiero è per il mare e il suo mistero / il suo unico fine è ondeggiare, agitarsi / proprio come me che sono inquieta / e come lui fremo per quelle nubi / che ci stanno sopra / e non ci danno tregua…’’ scrive la poetessa.  E in tutto questo ci puo' essere perfino  qualcosa che ci sorprende positivamente,  qualcosa  che ci ricorda che è finito l’inverno nonostante fino a poco prima cadessero le foglie come infatti  succede nella poesia dedicata alla ‘mimosa’.  Questo miracolo può accadere nella vita di ognuno anche solo per effetto di una semplice carezza ‘’…Forse cerco una carezza per vivere’’, cosi’ come ci confessa con sincerità, smarrimento e tenerezza  la Martinelli. Una carezza ‘’superstite’’, una carezza ‘’d’affetto’’, è quello che alla fine conta davvero, perchè è sempre nel gesto d'amore l’elemento fondante, la radice della vita.
Tiziana Marini



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mercoledì 17 luglio 2019

''Archeologie del cielo'' (Terra d'ulivi, 2019) di Chiara Mutti


‘’Archeologie del cielo’’, (Terra d’ulivi, 2019) di Chiara Mutti. Nota di lettura di Tiziana Marini

Tre piani, tre angolazioni, tre percorsi diversi caratterizzano e delineano  l’ultima raccolta  poetica di Chiara Mutti: poesie, immagini fotografiche e racconti in sinergia sinestetica, per  un testo che si avvale del continuo e necessario rispecchiarsi dell’uno nell’altro. Scriveva Antonia Pozzi ‘’…Io non devo scordare che il cielo fu in me…’’ e Wizlawa Szymborka: ‘’ Il cielo e’ onnipresente perfino nel buio sotto la  pelle’’.  Vale anche per Chiara Mutti questa onnipresenza del cielo? Sicuramente si. E cosa sono le ‘’archeologie’’ del bellissimo titolo della raccolta che l’Autrice cerca continuamente nel cielo-fuori, attraverso l’immagine fotografica, e nel cielo-dentro,  attraverso la parola poetica? Non sono di certo le nuvole,  sebbene catturate abilmente dal suo occhio di fotografa (…mi ostino a studiare le nuvole / ma le nuvole sono come il tempo. / Trattenerle / solamente illusione.), al contrario, sono  gli scavi che portano alla luce le  ferite ataviche che ognuno ha in se’ nelle pieghe piu’ profonde dell’anima, da quando è al mondo, come specie e come individuo.  Il cielo della Mutti, cosi’ mutevole  e al tempo stesso sempre uguale,  è  un cielo eterno, sapiente e tempestoso, simbolo, proiezione, archetipo del sacro e dell’infinito, interlocutore muto di ogni soliloquio umano;  è un cielo che  ha nelle  sue ‘’archeologie’’,  nelle sue stratificazioni piu’ profonde e nelle sue coordinate ancestrali, nella sua immutabilità mutevole e nelle sue aeree viscere, la mappa, per cosi’ dire, genetica di tutte le  possibili risposte, restando queste, tuttavia sempre sconosciute e  non decodificabili, per quanto le parole, in questo caso della poesia,   possano scavare.  Al contempo non esiste un cielo più umano, fallibile e terreno  di questo, solcato, come un deserto o un mare infinito, da dolori antichi, da crepe, rughe e ferite indelebili lasciate nell’anima  dalla vita stessa. Questo cielo,  spugna e specchio, come abbiamo detto, conserva tutte le tracce del passato, dal piu’ recente al piu’ antico, ci racconta la nostra storia, ma  è comunque un cielo imperfetto (…Non è forse / questa  imperfezione l’infinito?...) che esiste anche senza di noi e che, anzi,  ci ricorda la nostra finitezza ( …questo cielo limpido / che tutto accoglie:/ l’amarezza, la memoria, i sogni / questo cielo che esiste / ‘’lo avresti detto’’ / Esiste / anche senza di me). E’ importante dire  che la poesia di Chiara Mutti, come il suo cielo, non cede mai al  ‘’buio’’  perché  ‘’…Anche il cielo, / il più nero di stelle, / ha le sue prigioni’’,  casomai indugia sui tramonti affollati da ali e  croci che il buio altrimenti potrebbe nascondere (Ecco lentamente il sole precipita. / Il giorno ha piantato una lama nel cielo / e sul sangue erige il suo vessillo…). Ed e’ poesia che ama la vastità, pur nell’essenzialita’ del verso, non solo del cielo ma anche della terra, la riconosce e se ne appropria (…Gli alberi hanno rami lunghissimi / iniziano dalle foreste / e arrivano fino al mare ) per trasformarla in ricchezza interiore. Terra, cielo, mare e anima dunque, grandezze che sembrano dialogare continuamente fra loro, con parole che, come lampi tra nubi, come onde nella risacca, o ancora come vento nell’erba, disvelano cio’ che soggiace al vapore, alla sabbia, all’humus, mettendo a nudo i pilastri del cosmo e dell’anima,  e interfacciandoli con una scrittura  che non ammette tentennamenti o fraintendimenti, una scrittura solida e dolorosa in continua evoluzione e, complessivamente, con l’intero, policromo mondo poetico dell’Autrice.

Tiziana Marini

venerdì 5 luglio 2019

''La farfalla di Rembrandt'' (Ensemble, 2019) letta da Marco Onofrio




Il quarto libro di Tiziana Marini raccoglie ed estende, sulla prospettiva spazio-temporale di un “piano infinito”, le qualità straordinarie già espresse nei precedenti. Belle conferme, dunque, e nuove sorprendenti acquisizioni. La farfalla di Rembrandt (Ensemble, 2019, pp. 104, Euro 12) instaura un dialogo con la Profondità – lungo anzitutto la “linea del tempo” e la sua concreta percezione esistenziale – proteso verso «l’indicibile / l’inesplorato», laddove il tempo sembra appunto dissolvere le sbarre della propria gabbia e «ogni comprensione / finisce / in un sentire che denuda» nella misura in cui le parole umane non bastano più: è lì che «nasce il mondo» e «cade il centro delle cose senza nome». La voce della poetessa cerca di stanare, con gentile e suadente determinazione, il mistero ultimo dell’esistente: dove finiscono anche le nuvole, l’indaco si svuota «in un altro cielo». È proprio laggiù, nell’eccelso traguardo di quella dimensione sconosciuta, che mira ad infiggersi lo slancio insopprimibile della parola. E l’asta di questo slancio può agganciare il peso e la forza della sua portata alla forte vocazione ermeneutica di cui è composta e da cui, peraltro, è organicamente nutrita la poesia: può così «tradurre la voce delle foglie», leggere «la scrittura / degli alberi nell’acqua», registrare «il vento che parla / con voce di rami», avvertire l’«invocazione / che l’orizzonte attraversa / nelle rientranze dei balconi / nei portoni socchiusi», cioè la voce stessa dello spaziLa linea del tempo è una direttrice metafisica che, mentre ambisce alla trasumanazione e allo svelamento dell’invisibile, consente in realtà la tessitura delle cose più “normali” e concrete, ri-attraversate nella microfisica dei loro infiniti dettagli; i quali, svegliati e rianimati dal magnete poetico come granelli di polvere metallica, si predispongono a una nuova, vitalizzante integrazione della persona e alla centratura del vissuto intorno all’antico splendore del Sé, ovvero la scintilla divina che vive e irradia luminosa in fondo allo spirito. Ecco allora il confronto con se stessi e la vita interiore, l’anima, il nucleo eterno, la fanciulla sepolta, l’«altra me»: «Va giù il cuore nel ricordo» come un batiscafo che sonda gli abissi del silenzio. Il mistero è fuori e dentro la propria esistenza: basta una «crepa» e subito affiora la «mappa dei ricordi». La poesia di Tiziana Marini tiene in gran conto il senso vivo delle radici, la continuità delle generazioni, il tessuto universale dell’esistenza: «ogni cosa a qualcos’altro s’appoggia» per cui «tutte le morti del mondo mi appartengono», e così «le voci dei vivi e dei morti / che insieme cantano il mondo», il dono dell’esperienza dentro l’eternità spirituale della materia, il fatto di esserci e di esserci stati.
Uno dei doni che le concede il grande cabotaggio del suo “legno” e la consuetudine coi mari aperti e profondi della vita, è la coscienza della legge cosmica che Bonaventura Tecchi – rifacendosi tra gli altri a Goethe – chiamava “demonico”, cioè la misteriosa collaborazione evolutiva del bene col male, per cui – scrive Tiziana – «solo la penombra è viva», ed è il buio che «rivela / l’invisibile». È dalla sofferente imperfezione delle cose più ordinarie che, a ben vedere, scaturisce la potenza della creazione: «Mio padre non era felice / nemmeno mia madre, forse. / L’abitudine sbiadiva il loro sguardo. / Così sono nate le stelle (…) / Sono nata anch’io dall’abitudine / dalla fragilità». Il bisogno di scavo interiore accende il fuoco di una ricerca “à rebours” verso le proprie origini, anche e soprattutto quelle inaccessibili: ecco l’impulso prenatale, il ritorno al legame amniotico («Così forse stavo in te / aggrappata a una luna morbida. / […] Ma avevi il cuore sopra gli occhi / e un nido nelle mani. / Mi aspettavi.») e, prima ancora, il matrimonio dei genitori («Non saprò mai perché vi sposaste all’alba / senza invitati, come fuggitivi. / Fossi il filo di lana che mi riconduce a voi / e quella scelta e quella bruma / vi leggerei nel cuore l’ombra e le costellazioni»). Sono versi bellissimi, dove spira tra le parole una musica lontana e nostalgica che riecheggia la miracolosa stranezza di esser vivi, e lo stupore infinito di essere venuti al mondo. Ed ecco poi, risalendo le acque del tempo, i giorni dell’infanzia, i «globuli d’amore», e quel sentirsi «piccola efelide» della galassia materna. Da cui la mancanza atroce della madre («Dove sono le labbra / che sentivano la fronte che scottava?»), e il contraltare della memoria, con il suo tepore confortante di arca salvifica: il passato è ancora vivo e fermo, malgrado tutto, «nella casa che nessuno / ci toglie» perché è trasfusa dentro, come tutti i ricordi, con quel particolare «microclima della felicità», la dolcezza del “nido”, le consuetudini, il lessico familiare, il sistema delle evidenze e delle confidenze che il tempo scardina e raffredda. Riemergono intatti, così, i suoni di quel tempo, le voci, le parole («Nini, hai preso tu il mio rossetto?») e l’immagine della madre che «spezzava il filo coi denti» mentre cuciva e pensava: «inventavi misure / distanze geografiche / tra l’orlo e il colletto / tra l’asola e il bottone / tra noi e il domani». Il tempo distrugge tutto (le lune e i soli sono purtroppo «irripetibili»), ma certe cose restano per sempre perché ne siamo impastati, sono diventate carne, anima, respiro. «Poi ogni fine è la fine / il tempo ha cambiato distanze / e misure / ma il cappotto è cresciuto con me / e lo indosso / dove nessuno lo vede».
L’attitudine fondamentale che presiede allo sguardo incarnato nelle pagine del libro è quella di sentire la realtà e l’essenza «al vento degli anni», nel tentativo di sovrapporsi «alla loro ombra allungata» come una «meridiana / con tutto il mio sempre». La scrittura affonda le radici nell’inquietudine, ma nutrendosi di «paura e stupore» raggiunge l’equilibrio stoico di una sua profonda e sottile serenità, quasi la «meraviglia di astronauta che guarda / l’arco sottile dell’aurora», trovando la giusta misura tra denso e liquido, cioè tra forma raggelante e vita inafferrabile. La magia tipica della scrittura di Tiziana Marini è la capacità di evocare le cose più grandi e profonde attraverso quelle più semplici e minute, nella trasfigurazione operata dall’esprit de finesse di cui è provvisto, per natura e cultura, il suo sguardo poetico: ad esempio «intuire le sfumature dell’amore» o «la morfologia di un fiocco / di neve, la tessitura intrinseca / del gelo»… L’universale, cioè, tende a svelarsi nelle cose quanto maggiore è l’attenzione riservata al particolare: tutti i dettagli vibrano dello stesso infinito globale che li trascende e in cui si riflettono mentre lo tengono insieme: «C’è tutto in questa bolla / che siamo / un mondo creato / e creante umanità / dall’attimo all’eterno». Siamo al «margine di un universo insensato» dove tutto è fragile e caduco, «non c’è tempo d’imparare / che più degli uomini durano / le cose»: occorre dunque «allenare le mani alle assenze» perché «si fa sera presto». Quanto tempo durano le nostre tracce? «Trattiene la stoffa, una carezza / il bicchiere vuoto, le labbra?» La poesia articola e interpreta, per converso, la «voglia d’eternità», cioè il tentativo disperato di estrarre una radice solida dal vuoto divoratore, sempre in agguato, in cui ogni essere fatalmente rientra ma da cui, pure, nascono i fiori. Abitiamo una casa poggiata sull’impermanenza e dobbiamo farci i conti fino a sentire di appartenere «alla luce di un lampo». E così approfondire la visione (che è in primis un fatto interiore: nasce dal chiudere gli occhi) raggiungendo l’eternità del gesto e del fenomeno (le «foglie inseguite per sempre dal vento») che avvince l’ultimo sguardo al primo per «riavere ciò che ho perso / l’illusione / il rumore del vuoto». Da tutto il libro emerge, nel complesso, una dolce prospettiva di speranza: quel sentirsi «salvi / a dispetto del destino / a dispetto di un corpo che si riduce» perché resta, sì, tutto il dolore del mondo, ma «nulla è perso per sempre». Da cui l’invito “leopardiano” alla solidarietà, all’alleanza reciproca degli esseri viventi: «Piccio, stringiamo la vita fra noi / senza fessure / come chi pensa di non essere morto / per quando non ci sarà, ora che c’è».

martedì 2 luglio 2019

Premio ''Speciale Infanzia 2019''




(Con la scrittrice Dacia Maraini, madrina del Premio per la mia poesia ''Il seme di coriandolo'' , a proposito di responsabilita' didattica, educativa e sociale degli adulti nel tutelare i diritti dell'infanzia per favorirne una sana crescita: ''Il senso della poesia si coglie nell'ultima strofa dove si percepisce il senso di lasciare un esempio, un segno positivo che insegni a salire i gradini della vita pur prendendo spunto da un semplice seme di coriandolo...''

giovedì 27 giugno 2019

Oggi ... un mio testo...






I tuoi nuovi colori


Rispetto il tuo nuovo tempo, la stanchezza
che ti veste
le foglie cresciute sui capelli nella tua dimensione
aerea, svettante

rispetto i tuoi nuovi colori mentre il tempo
ti doma  e la pazienza
bianca, pura, ti persuade ad aspettare.
(hai detto, convinto ‘’Aspetto’’).

Ti ho visto cosi’ seduto, rimpicciolirti
nella lentezza del tramonto
e mi  hai  inondato di lontananza.

Penso che qualcosa di eterno si compia
ad ogni tuo gesto
la fiducia di un seme spaccato sul germoglio
come un taglio nel cielo.

Tiziana Marini ©2019




Your new colors


I respect your new time, the fatigue
that dresses you
the leaves grown on your hair in your aerial
soaring dimension

I respect your new colors while time 
tames you and white, pure patience
persuades you to wait.
(you said with  conviction ''i'm waiting'').

I saw you like this, sitting, getting smaller
in the slowness of the dusk
and you flooded me with distance.

I think that something eternal is fulfilled
in every your act
the trust of a broke seed on the bud
like a cut in the sky.


(Traslated by  Tiziana Marini)

venerdì 7 giugno 2019

A proposito de ''La farfalla di Rembrandt''




CHIUDO GLI OCCHI AGLI OCCHI
‘’Ai rami che accarezzano/ i prati /ai fiori che crescono / in fretta la notte / all’odore d’estate / in inverno /al muro trasparente /che separa le anime /oltre il quale vivono / i gesti /e alla luce di un lampo / sento di appartenere / pure sono ospite ovunque /di questa vita e quell’altra /e non c’è posto che mi somigli. /Chiudo gli occhi agli occhi /a un volto di nuvola /che passa /alla mia traiettoria di nave/o di stella’’.
(poesia di Tiziana Marini dalla raccolta La Farfalla di Rembrandt, cura di Plinio Perilli, Edizioni Ensemble 2019)
…questi versi di Tiziana Marini in tutta evidenza non si prestano a una lettura fuorviante. Sono versi delicati, ma in fondo fermi. Di valenza paradigmatica all’interno della sua ultima silloge, essi ci raccontano in effetti più di qualcosa sulla poetessa, sul suo stare al mondo con gli oggetti “doppi”, riferendoci qui al celebre passo dello Zibaldone di Giacomo Leopardi (4418; 30/11/1828) laddove il Recanatese riflette su quanto accade “all’uomo sensibile e immaginoso”. “Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono”. Ebbene la Marini, rispetto a “questa vita e quell’altra” - bellissimo nella sua ispirata semplicità il settenario pavimentale “sento di appartenere” – riconosce la sua condizione di apolide, l’impossibilità di immedesimarsi sia con il regno empirico sia con quello dell’invisibile; (e qui si può cogliere naturalmente il periglio ineludibile di un viaggio nelle plaghe dell’interiorita’, ossia l’ubi consistam della silloge in oggetto). “Chiudo gli occhi agli occhi”, continua la poetessa: si tratta di stanchezza?  di una sosta provvidenziale prima di ripartire? chiusi gli occhi carnali a quelli della mente, alla nuvola antropomorfica di passaggio, ad una “traiettoria di nave/ o di stella” si continuerà comunque a viaggiare, giacché “al sussurro” Tiziana Marini preferisce “il rumore regolare di chi impara”, così come in effetti riconoscerà con umiltà direi sapienziale in una poesia quasi in conclusione della raccolta. Una raccolta da leggere con partecipazione paziente, anche per godere della sua versificazione libera ma non arbitraria, aderente alla delicata fermezza di una sensibilità in cammino.
 E ancora Andrea Mariotti a proposito de  ‘’La farfalla di Rembrandt’’ scrive:
‘’Questa tua ultima raccolta, cara Tiziana, così come giustamente osserva Plinio Perilli in prefazione, suggerisce al lettore assiduo dei tuoi versi il senso di un cosciente, coerente e ulteriore tuo avvicinamento alla vita interiore senza il cui nutrimento, ovviamente e soprattutto per te, non si dà poesia. Non altrimenti ci si potrebbe spiegare l’incessante colloquio con le ombre, costitutivo della silloge. Paradigmatica al riguardo una lirica quale “Aria che muove l’aria”, con quel bellissimo attacco “Non chiudo la finestra di notte/ non ancora” così perentorio e carico di valenze metaforiche, a dar credito all’invisibile; per sensificare poi in seconda strofe il soffio di quella “invocazione/ che l’orizzonte attraversa”. 

lunedì 27 maggio 2019

Omaggio ad Alberto Toni di Plinio Perilli




OMAGGIO
ad Alberto Toni



ad Alberto, e a tutti i miei giovani, coetanei amici poeti
di allora, svariatamente indimenticabili: Valerio Magrelli,
Marco Palladini, Marco Caporali, Giovanna Sicari,
Alessandro Ceni, Marcella Corsi, Gian Ruggero Manzoni,
Marco Tornar, Fabio Ciriachi, Gabriella Sica,
Enzo Di Mauro, Angelo Scandurra, Paola Zampini,
 Luigi Amendola, Stefania Portaccio, Daniele Pieroni,
Silvia Bre, Antonella Anedda, Daniela Attanasio,
Marco Guzzi, Lello Voce, Tommaso Ottonieri,
Paola Febbraro, Isabella Vincentini...



   Conoscevo Alberto Toni (Roma, 1954 - 2009), e gli ero amico, da tantissimi anni, almeno dalla metà ancora dolente, angustiata, e poi dal finire ben più speranzoso, fervoroso, degli '80, quando insieme si cominciava a scrivere, a fermare tempo e sogni irrequieti, nostalgie mai sazie...
   Quando nell'inverno 1988/89, invitati da Elio Pecora, ci trovammo – ristretto, baldo manipolo di Voci Nuove – a leggere i nostri primi versi sul piccolo palcoscenico romano del Teatro Due (e l'ho anche scritto in RomAmor, "Come eravamo" 1968-2008), davvero insomma tradivamo, arringavamo, la densa emozionata voglia di un nuovo sguardo... Alberto Toni titolò La chiara immagine, una sua fresca, radiosa silloge del 1987 (edita da Rossi & Spera gemellata ad opere di Remo Brindisi), omeopatico dissipante antidoto d'ogni malessere, d'ogni caligine:

   Saluti l'aria come un evento
   della stagione buona al mio arrivo.
   Nel cammino degli occhi
   il senso nuovo fa luce.
   Poi non importa dei lontani viaggi
   di assenza; anche il tempo mi accorgo
   è brevissimo della sfida.
   L'errore che rallenta
   non è ferita di sempre:
   apre la terra della conoscenza.

   Molti anni passarono, e altrettanti suoi buoni libri. Anzitutto, l'incanto adolescente della sua Partenza (Empiria, Roma, 1988); partenza verso il mondo dei grandi, ma anche la "Pratica d'equilibrio: la natura / dell'intelletto"; eternamente poetico, "il peso di un mitico silenzio, / corteggiando il piacere della conoscenza".

   Qualcosa che ho visto crescere
   come il sorriso sulle labbra,
   come l'ultima estate,
   sulla sponda invocata
   e mai raggiunta.

   Queste parole in aggiunta
   al sentimento
   ora servono ancora
   all'eterno volo sulla terra.
   Lo smarrimento finisce
   in un gioco di perle
   ......................................

   In Dogali (Empirìa, Roma, 1997), che pure parte dalla Storia, anche quella triste e annientata, e ad essa torna (Morti coprono il terreno... Muti eroi, composti in coro...), dopo un'eccellente profusione di "Sonetti del giorno e della notte" ("È il poeta nudo che grida, un atimo prima dell'annientamento," –  annotò Renzo Paris – "il desiderio della speranza, della parola assoluta, neo-antica"), e testi-fulcro, ardui, rivelatori (come appunto "Dogali", ma anche "La notte di Amleto", o "Il segreto – Rimbaud", e la lettera in versi "A Dario Bellezza"), è in fondo un leopardiano, inveterato "Dialogo sulla Bellezza" – serrato ma romantico, tra "Il poeta" e "La donna" – che configura e ci affida l'ineludibile, agrodolce viatico per "Il tempo che viene":

   Non potrebbe che essere nelle cose
   possedute, l'ultima ora vissuta.
   Oh anima delle cose,
   i miei regali ogni giorno – e
   averli avuti è questo che importa.

*******

   Cambiò però via via lo scenario, l'orizzonte, il secolo, il millennio, il contesto, chiamiamolo il back-ground epocale. Vorticoso e irruento, ma certo non bastevole a togliergli ampia e coerente, dolce e caparbia voglia d'"Elegia" (leggiamo un vero e proprio inno corporale e creaturale, tratto da Alla lontana, alla prima luce del mondo, forse la sua raccolta più fascinosa, rapinosa – Jaca Book, Milano, 2009):

   Il corpo è qui, l'anima sta sopra, l'altezza
   non vista; eppure basta un niente per aprire
   il cancello, l'onda che ripercorre gli ultimi
   istanti, li rinserra, come fossero cent'anni
   di rose, cento comandamenti, cento volte prima
   della caduta. Noi siamo in attesa. ......................

   Lo salvò, lo salvava sempre la fede profonda in una Parola che fosse in se stessa benefica, addirittura taumaturgica – se illimpidita, inscenata di continuo, sul palcoscenico della vita, come dialogo inesausto, moderna operetta morale duettante, duellante, perché no?, tra l'anima e il corpo, cioè a dire la Poesia e la Storia, vecchi amici e sodali dell'Umano. Lo giurava già in Partenza:

   E tu parola rispondi,
   non sottrarti alle mie domande,
   scava una strada forte
   per i miei anni.

   Teatralità dell'atto, scriverà (Passigli, Firenze, 2004), a mo' di appassionata, ma anche agile, guizzante dichiarazione di poetica:

   Credo che la poesia, oggi più che mai, debba riconfigurarsi nella Storia. "Nel rovescio del mondo", per dirla con Gelman, dove "cresce il cosmo" e si impone una ragion d'essere forte e chiara. Poesia come spinta etica, "teatralità dell'atto" che ogni giorno si consuma negli infiniti quotidiani, da un capo all'altro del mondo.

venerdì 24 maggio 2019

''Ai miei versi scritti cosi' presto'' di Marina Ivanovna Cvetaeva


Ai miei versi scritti così presto 
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli demoni
nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
ai miei versi di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!

Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verra' pure il loro turno.
Marina Ivanovna Cvetaeva 
Koktebel, maggio 1913
(Traduzione di Pietro Antonio Zveteremich)
da “Marina Ivanovna Cvetaeva, Poesie”, Feltrinelli, Milano, 1979
∗∗∗
«Моим стихам, написанным так рано»
Моим стихам, написанным так рано,
Что и не знала я, что я – поэт,
Сорвавшимся, как брызги из фонтана,
Как искры из ракет,
Ворвавшимся, как маленькие черти,
В святилище, где сон и фимиам,
Моим стихам о юности и смерти,
– Нечитанным стихам!
Разбросанным в пыли по магазинам,
Где их никто не брал и не берет,
Моим стихам, как драгоценным винам,
Настанет свой черед.
Марина Ивановна Цветаева
Коктебель, 13 моя 1913
da “Цветаева Марина. Собрание сочинений в семи томах. Том 1. Стихотворения 1906-1920”, Терра, 1997

venerdì 10 maggio 2019

‘’Il sole forse’’ di Daniela Basti (LietoColle, 2013)





           


 ‘’Il sole forse’’ di Daniela Basti e’ una silloge di grande valore poetico,  umano e sociale in quanto ‘’voce’’ non dal ‘’dal carcere’’ ma ‘’del carcere’’, voce in prima persona della poetessa,  dei detenuti e di una  realta’ drammatica, con   un titolo che non assicura certezze, com’e’ giusto che sia, ma sicuramente apre possibilita’ e nuovi orizzonti, piu’ o meno vicini. L’opera ci racconta con poesie di grande impatto emotivo, dure e delicate al tempo stesso, di grande sintesi e coraggiose, l’esperienza dell’autrice, chiamata a stabilire, attraverso la scrittura e l’ascolto, un rapporto con i detenuti,  di arricchimento umano che si rivelera’ reciproco per scambio ed identificazione. Un’esperienza, si puo’ dire, che lascera’ il segno in tutti i protagonisti. In questa silloge, piu’ dello spazio chiuso, ristretto, ridotto al minimo della vivibilita’,  e’ importante la dimensione temporale.  Infatti il  tempo, fermo, statico stagnante dell’inizio, come quello segnato da un orologio scarico, riprende gradualmente a scorrere, va verso un probabile, intuito futuro, verso una  seppur sofferta e flebile  progettualita’ o comunque un’accettazione di se’. Ma non si va  solo verso un possibile  futuro perche’  il tempo  riprende a scorrere anche al passato ossia da dove si era interrotto nell’attimo preciso della colpa. Forse inizia una consapevolezza di se’ , un’elaborazione dell’errore, un recupero. Tutto cio’ attraverso un linguaggio / specchio, che va  dall’essenzialita’ iniziale  di uno sguardo tutto volto all’esterno, come a recuperare  dimensioni non claustrofobiche, dimensioni di liberta’ (perche’ questo e’ quello che conta), fino ad un linguaggio volto all’interno, verso dimensioni dell’anima, un’anima che si riappropria o cerca di riappropriarsi della liberta’ interiore, con tutti i rischi e fallimenti del caso, forse l’unica  davvero importante,  un linguaggio dunque che affiancando e ripercorrendo processi di pensiero  ben piu’ articolati, diventa esso stesso piu’ complesso.
La bella prefazione di Giovanna Stefancich sottolinea come la drammaticita’ del contenuto nasconda comunque un profondo messaggio di speranza che, come precedentemente sottolineato, si rivela anche nel titolo.


La silloge e’composta da 5 sezioni i cui nomi sono haiku: Sono civetta… Pini di mare… Brandelli vivi… La luna e’ piena… E lancio a sera… e si apre con la poesia corale in esergo che recita ‘’Noi siamo meno di un soffio di vento…’’ una poesia nella quale e’ il ‘’popolo del carcere’’ a parlare. Ma in questo coro ognuno puo’ ritrovare la sua voce, il ‘’popolo dentro’’ e ‘’il popolo fuori’’ non sono altro che due facce della stessa umanita’, contrapposta e fusa.
La prima sezione si apre con la poesia che racconta l’arrivo a Rebibbia di Daniela, in uno spazio e in  un tempo rarefatti, praticamente  inesistenti eppure imprescindibili e fortissimi.   L’Autrice in questi primi versi  rivive e ci fa vivere  il primo sguardo e lo stato d’animo che la accompagnano in questa sua missione con pennellate essenziali che ci descrivono uno scenario tra luogo concreto  e luogo dell’anima, in cui varcare la soglia  vuol dire  entrare nella vaghezza di un’atmosfera fatta di silenzio, poche cose, ferme, immutabili, come fossero li’ da sempre.
Nelle seconda sezione il paesaggio esterno del carcere  si contrappone a quello interno dell’anima. Il rumore dei cortili, lo scorrere indifferente ed inesorabile  del fiume Tevere da una parte  e il silenzio dei corridoi e delle celle che diventano spazio sacro, con gli oggetti che portano i segni dell’abbandono e dove aleggiano i fantasmi del passato, dall’altro. Il tempo del carcere non e’ segnato dall’orologio, ma dal passare delle stagioni, e questo vale non solo  per i detenuti ma anche per i secondini. Nella poesia ‘’Quando attraverso il grigio corridoio…’’ la poetessa descrive il timore che la pervade quando pensa di  violare quelle ombre, quelle sofferenze e quelle  solitudini.
Nella terza sezione la poetessa ci presenta i detenuti. Il primo e’ colui che  dopo le prime resistenze, esitazioni, paure, inizia ad aprirsi, ma il suo improvviso ricovero all’ospedale psichiatrico non permettera’ che il percorso continui. Per tutti il carcere e’ un utero protettivo, la vera solitudine e’ fuori. C’e’ poi chi ha voglia di aprirsi e desidera un’altra vita chi fara’ di tutto per ritornare in carcere una volta uscito,  chi si rende libero con la musica, chi inizia a scrivere di se’, chi ripensa agli affetti e alle cose lasciate. Anche un agente di custodia ha voglia di raccontarsi.
Nella quarta sezione parlano i detenuti. E’ una sezione onirica dove si alternano visioni di liberta’, cieli e spazi infiniti, desideri e sogni per sopravvivere.
Nella quinta sezione i detenuti si raccontano, si confessano e il linguaggio, diventato piu’ complesso, sembra riflettere i meccanismi del pensiero di chi si offre con piu’ chiarezza e indulgenza alla vita.  Sono dialoghi  tra se stessi e il mondo, un’ autoanalisi per meglio comprendersi, attraversata talvolta da  autolesionismo, perfino anoressia per fingere il controllo sulla propria vita, quasi a cercare nel sangue la prova del vivere. E infine la capacita’ di resistere, perfino la voglia di giocare spensieratamente a pallone, propositi,  paure e l’ultimo   ricordo da cui forse ricominciare.
Per concludere, dunque  ‘’Il sole forse’’ e’ un testo necessario che fa riflettere e che  colpisce dritto al cuore e coinvolge il lettore per la passione e la pietas con cui e’ stato scritto, a dimostrazione che la poesia puo’ essere ovunque anche laddove non penseremmo di trovarla, in quei luoghi ‘’dimenticati’’ e ‘’abbandonati’’ dei quali, sicuramente il carcere e’ l’emblema.

Tiziana Marini



''Eri cosi' fragile, spaurito,
bonaccia carica di intima tempesta.
Con voce gentile
narravi visioni pure.

Io sentivo la ricchezza e il dolore
di un pensiero oltre spazio e tempo,
vetro soffiato in bilico
tra senso e non senso.
Volevi e non volevi uscire.
Il fuori era la bocca dell'inferno,
nessuno ad aspettarti, a offrirti protezione.
Ti sei rinchiuso in cella,
in un ventre freddo, per te materno.
Io lo conservo ancora il tuo quaderno.
Daniela Basti (Da ''Il sole forse'' - LietoColle 2013)


                                                                                  (Foto di Tiziana Marini)





''La farfalla di Rembrandt'' nelle parole della poetessa Daniela Basti



(phTiziana Marini Copyright © 2019)


Leonardo da Vinci, nel suo Trattato della pittura, ci dice che ogni forma e  ogni corpo sono plasmati nel gioco dell’ombra e della luce e l’ombra è nella natura delle cose universali. Questo gioco dell’ombra e della luce colora e si ritrova tutto in questa silloge di Tiziana Marini, un’opera profondamente lirica, simbolica e metaforica, che ci indica come e quanto ogni sfumatura di ombra si integri con ogni sfumatura di luce. Le sue poesie sono una rivisitazione del cammino, del percorso della vita, immagini, flash, che si dipanano come fili di luce dalle anse, dalla penombra dell’intreccio dei ricordi. Dall’ombra e dalla penombra c’è la possibilità di cogliere meglio, di definire i contorni, le sfaccettature, le tracce di luce, di scovare, di ritrovare anche i raggi più esili, le orme più lievi e di ri-costruire le assenze sempre presenti nella nostra anima e che continueranno sempre a illuminarci, a colorare della loro luce  il nostro cammino con la nostalgia di ciò che non potrà più tornare e la dimensione dell’accettazione. Le metafore delle foglie, degli alberi, degli eventi naturali, si dispiegano in un andirivieni di immagini nelle quali l’osservazione della natura, né benigna né matrigna, rasserena tutte le inevitabilità esistenziali degli uomini. Tutte le poesie, di un impalpabile spessore, mostrano, in una dimensione anche leopardiana, il nostro più o meno affannoso impegno nel legare i fili più o meno sottili di luce e dalla nostra penombra, accarezzarli, cullarli, custodirli, con disperante speranza.

venerdì 3 maggio 2019

''Mattino'' di Pierluigi Cappello


Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta
tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie, l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto
siamo la neve dentro le cose
l’occhio cui tutto allucina, tutto separa
e vivere è un minuscolo posto nel mondo
dove stare in giardino.
da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti editore (Milano,2010)

venerdì 26 aprile 2019

Dalla lettera del poeta Raffaele Ciminelli per ''La farfalla di Rembrandt''



‘’(…)La farfalla di Rembrandt se esistesse non potrebbe consolarci del non sapere, dell’impossibilità di programmare un esodo accettabile dalle cose, dai ricordi, dagli amori non del tutto percorsi dall’anima. Quanta malinconia nella precarietà del giorno, quanta felicità nella speranza che l’ombra della notte si diradi, che i fiori, gli azzurri si rivelino!  Così è l’indaco a prevalere, l’indefinibile essenza delle cose. Sono forse i nostri affetti ad impedirci la felicità, proprio perché noi ne avvertiamo il provvisorio, imperfetto nascere e morire. Vorrei che la tua anima  si saziasse del bene che senti, e che quasi forsennatamente ricerchi nella  ragione del quotidiano, nella  bellezza delle piccole cose, nella straziante insicurezza dell’attimo. Mi accontenterò di seguire il tuo racconto poetico, intriso di purezza, che la tua anima mi narra ad ogni rigo, mi consolerò con il tuo offrirti genuina nella confessione della tua splendida innocenza…(…)’’ Raffaele Ciminelli

''La farfalla di Rembrandt'' (Ensemble2019) su Poetarum Silva nota di Paolo Carlucci

https://poetarumsilva.com/2019/04/26/tiziana-marini-la-farfalla-di-rembrandt/


Nota di Paolo Carlucci per Tiziana Marini, La Farfalla di Rembrandt, Ensemble, Roma, 2019
Ti rubo l’ombra/ mi va a pennello come un sogno/ a peso zero.
Anche in questi versi, posti in esergo di sezione, alla sua nuova silloge, La farfalla di Rembrandt, Tiziana Marini offre in specchio l’essenza della propria voce poetica.
È infatti nelle vene confuse dell’ombra che la poesia di Tiziana Marini si fa più ardita ed intensa. Versi in fioritura di... globuli d’amore…  Nei suoi testi sempre troviamo preziose quelle stazioni della memoria, che la Marini, ricordando brani di sé, ci dona in fulgide emozioni familiari di vita/sogno. Globuli d’amore, appunto… Ali del suo essere in una poesia, sempre corsa dalla forza dell’ombra, alla cui meta sta un tocco di luce; prima bambina poi in fioritura, da qui la scelta accorta del titolo allusivo ad una formula tecnica utile a catturare, come delinea e rileva con abilità il prefatore Plinio Perilli nell’articolata e complessa introduzione, l’umbratile sogno del fascino segreto della luce. Titolo eloquente nomen-omen dunque questo La farfalla di Rembrandt, quarta tappa del percorso poetico di un’autrice determinata nella sua sensibilità di vedere e sentire nel calendario interiore la durata. L’ombra che si rischiara memoria; luce di ricordo che si fa voglia d’eternità, sogno di trattenere nelle maglie delle cose la stoffa d’una carezza/ il bicchiere vuoto/ le labbra.  Durano tre mesi/ le tracce vive d’un gatto/ Il tempo d’una stagione/ tra pleniluni e maree/ sugli stipiti/ nelle coperte / dov’era la ciotola. / E l’uomo dove lascia tracce/ chimiche di sé… o un’idea che gli sopravviva?... E per quanto tempo? / Voglia d’eternità!
In una crepa/ la mappa dei ricordi /quando volevo i capelli lisci / le gambe magre / il naso senza gobba /… E già in chiusa di questa prima poesia, una dichiarazione di poetica, ma quale poesia in fondo non lo è, il vento memoriale si increspa di natura … e io leggevo la scrittura degli alberi sull’acqua.

domenica 14 aprile 2019

''La farfalla di Rembrandt''

Dalla prefazione di Plinio Perilli: (..)Dolce e insieme aguzzo, nostalgico e futuribile, gioioso d’umbratile, vertiginoso e a tratti radioso, redento di malessere, questo testo, confessio o rito introiettato è sequela, salvezza d’ombre, cento ànditi e ripari, inesauribili nascondigli dell’anima...(...)

sabato 23 febbraio 2019



Sopravvivendo  / benche' di vetro / l'ultimo raggio / magnifico / prima della sera / vedrai quello che io vidi / in quella luce / dal mare all'entroterra. Lo stesso cielo / la stessa solitudine / che provammo appena nati. / Tenacemente  restano le cose / s'incarnano / e il colore hanno dei cipressi  / inclinati e imperfetti. (da ''Lo scatto della lucertola'', La Vita Felice, 2016)
Surviving / althought  of glass / the last ray / so glorious /  before the night / you will see / what i've seen / in that light / from sea to inland /. The same sky / the same loneliness / that we felt / just born. Tenauciosly / everthings remain / become incarnate  / with the color / of  inclined and imperfect cypresses. (from ''The speed of the lizard'', La Vita felice 2016)

lunedì 21 gennaio 2019

 ''Mia madre era...Donne e famiglie del Novecento''
Prefazione di Elio Pecora
Postfazione di Franco Ferrarotti
Cura di Rita Laganà e Terry Olivi

Sappiamo molto dell’Italia del secolo passato grazie a questi racconti-ritratti; che si presentano come un’impresa necessaria e preziosa.
(dall’Introduzione di Elio Pecora)
Un giorno, forse non lontano, si dirà «matria» oltre che «patria».
(dalla Postfazione di Franco Ferrarotti)

''(...)Eri viva per miracolo, per le preghiere di tua madre rivolte al Bambino di Praga. Cosi' si raccontava. Salva dalla  polmonite che ti aveva colpita quando avevi pochi mesi di vita (...). Poi scoppio' la guerra che divoro' i sentimenti e mise a tacere il futuro. Arrivarono gli anni del coprifuoco, dei passi minacciosi delle ronde tedesche. Arrivarono gli anni di Radio Londra che le famiglie ascoltavano di nascosto e del rumore delle fortezze volanti che si avvicinavano (...) (dal mio  racconto ''   Mamma foulard'')   












(nella foto Elsa Faneschi, mia madre)