Il quarto libro di Tiziana Marini raccoglie ed estende, sulla prospettiva spazio-temporale di un “piano infinito”, le qualità straordinarie già espresse nei precedenti. Belle conferme, dunque, e nuove sorprendenti acquisizioni. La farfalla di Rembrandt (Ensemble, 2019, pp. 104, Euro 12) instaura un dialogo con la Profondità – lungo anzitutto la “linea del tempo” e la sua concreta percezione esistenziale – proteso verso «l’indicibile / l’inesplorato», laddove il tempo sembra appunto dissolvere le sbarre della propria gabbia e «ogni comprensione / finisce / in un sentire che denuda» nella misura in cui le parole umane non bastano più: è lì che «nasce il mondo» e «cade il centro delle cose senza nome». La voce della poetessa cerca di stanare, con gentile e suadente determinazione, il mistero ultimo dell’esistente: dove finiscono anche le nuvole, l’indaco si svuota «in un altro cielo». È proprio laggiù, nell’eccelso traguardo di quella dimensione sconosciuta, che mira ad infiggersi lo slancio insopprimibile della parola. E l’asta di questo slancio può agganciare il peso e la forza della sua portata alla forte vocazione ermeneutica di cui è composta e da cui, peraltro, è organicamente nutrita la poesia: può così «tradurre la voce delle foglie», leggere «la scrittura / degli alberi nell’acqua», registrare «il vento che parla / con voce di rami», avvertire l’«invocazione / che l’orizzonte attraversa / nelle rientranze dei balconi / nei portoni socchiusi», cioè la voce stessa dello spaziLa linea del tempo è una direttrice metafisica che, mentre ambisce alla trasumanazione e allo svelamento dell’invisibile, consente in realtà la tessitura delle cose più “normali” e concrete, ri-attraversate nella microfisica dei loro infiniti dettagli; i quali, svegliati e rianimati dal magnete poetico come granelli di polvere metallica, si predispongono a una nuova, vitalizzante integrazione della persona e alla centratura del vissuto intorno all’antico splendore del Sé, ovvero la scintilla divina che vive e irradia luminosa in fondo allo spirito. Ecco allora il confronto con se stessi e la vita interiore, l’anima, il nucleo eterno, la fanciulla sepolta, l’«altra me»: «Va giù il cuore nel ricordo» come un batiscafo che sonda gli abissi del silenzio. Il mistero è fuori e dentro la propria esistenza: basta una «crepa» e subito affiora la «mappa dei ricordi». La poesia di Tiziana Marini tiene in gran conto il senso vivo delle radici, la continuità delle generazioni, il tessuto universale dell’esistenza: «ogni cosa a qualcos’altro s’appoggia» per cui «tutte le morti del mondo mi appartengono», e così «le voci dei vivi e dei morti / che insieme cantano il mondo», il dono dell’esperienza dentro l’eternità spirituale della materia, il fatto di esserci e di esserci stati.
Uno dei doni che le concede il grande cabotaggio del suo “legno” e la consuetudine coi mari aperti e profondi della vita, è la coscienza della legge cosmica che Bonaventura Tecchi – rifacendosi tra gli altri a Goethe – chiamava “demonico”, cioè la misteriosa collaborazione evolutiva del bene col male, per cui – scrive Tiziana – «solo la penombra è viva», ed è il buio che «rivela / l’invisibile». È dalla sofferente imperfezione delle cose più ordinarie che, a ben vedere, scaturisce la potenza della creazione: «Mio padre non era felice / nemmeno mia madre, forse. / L’abitudine sbiadiva il loro sguardo. / Così sono nate le stelle (…) / Sono nata anch’io dall’abitudine / dalla fragilità». Il bisogno di scavo interiore accende il fuoco di una ricerca “à rebours” verso le proprie origini, anche e soprattutto quelle inaccessibili: ecco l’impulso prenatale, il ritorno al legame amniotico («Così forse stavo in te / aggrappata a una luna morbida. / […] Ma avevi il cuore sopra gli occhi / e un nido nelle mani. / Mi aspettavi.») e, prima ancora, il matrimonio dei genitori («Non saprò mai perché vi sposaste all’alba / senza invitati, come fuggitivi. / Fossi il filo di lana che mi riconduce a voi / e quella scelta e quella bruma / vi leggerei nel cuore l’ombra e le costellazioni»). Sono versi bellissimi, dove spira tra le parole una musica lontana e nostalgica che riecheggia la miracolosa stranezza di esser vivi, e lo stupore infinito di essere venuti al mondo. Ed ecco poi, risalendo le acque del tempo, i giorni dell’infanzia, i «globuli d’amore», e quel sentirsi «piccola efelide» della galassia materna. Da cui la mancanza atroce della madre («Dove sono le labbra / che sentivano la fronte che scottava?»), e il contraltare della memoria, con il suo tepore confortante di arca salvifica: il passato è ancora vivo e fermo, malgrado tutto, «nella casa che nessuno / ci toglie» perché è trasfusa dentro, come tutti i ricordi, con quel particolare «microclima della felicità», la dolcezza del “nido”, le consuetudini, il lessico familiare, il sistema delle evidenze e delle confidenze che il tempo scardina e raffredda. Riemergono intatti, così, i suoni di quel tempo, le voci, le parole («Nini, hai preso tu il mio rossetto?») e l’immagine della madre che «spezzava il filo coi denti» mentre cuciva e pensava: «inventavi misure / distanze geografiche / tra l’orlo e il colletto / tra l’asola e il bottone / tra noi e il domani». Il tempo distrugge tutto (le lune e i soli sono purtroppo «irripetibili»), ma certe cose restano per sempre perché ne siamo impastati, sono diventate carne, anima, respiro. «Poi ogni fine è la fine / il tempo ha cambiato distanze / e misure / ma il cappotto è cresciuto con me / e lo indosso / dove nessuno lo vede».
L’attitudine fondamentale che presiede allo sguardo incarnato nelle pagine del libro è quella di sentire la realtà e l’essenza «al vento degli anni», nel tentativo di sovrapporsi «alla loro ombra allungata» come una «meridiana / con tutto il mio sempre». La scrittura affonda le radici nell’inquietudine, ma nutrendosi di «paura e stupore» raggiunge l’equilibrio stoico di una sua profonda e sottile serenità, quasi la «meraviglia di astronauta che guarda / l’arco sottile dell’aurora», trovando la giusta misura tra denso e liquido, cioè tra forma raggelante e vita inafferrabile. La magia tipica della scrittura di Tiziana Marini è la capacità di evocare le cose più grandi e profonde attraverso quelle più semplici e minute, nella trasfigurazione operata dall’esprit de finesse di cui è provvisto, per natura e cultura, il suo sguardo poetico: ad esempio «intuire le sfumature dell’amore» o «la morfologia di un fiocco / di neve, la tessitura intrinseca / del gelo»… L’universale, cioè, tende a svelarsi nelle cose quanto maggiore è l’attenzione riservata al particolare: tutti i dettagli vibrano dello stesso infinito globale che li trascende e in cui si riflettono mentre lo tengono insieme: «C’è tutto in questa bolla / che siamo / un mondo creato / e creante umanità / dall’attimo all’eterno». Siamo al «margine di un universo insensato» dove tutto è fragile e caduco, «non c’è tempo d’imparare / che più degli uomini durano / le cose»: occorre dunque «allenare le mani alle assenze» perché «si fa sera presto». Quanto tempo durano le nostre tracce? «Trattiene la stoffa, una carezza / il bicchiere vuoto, le labbra?» La poesia articola e interpreta, per converso, la «voglia d’eternità», cioè il tentativo disperato di estrarre una radice solida dal vuoto divoratore, sempre in agguato, in cui ogni essere fatalmente rientra ma da cui, pure, nascono i fiori. Abitiamo una casa poggiata sull’impermanenza e dobbiamo farci i conti fino a sentire di appartenere «alla luce di un lampo». E così approfondire la visione (che è in primis un fatto interiore: nasce dal chiudere gli occhi) raggiungendo l’eternità del gesto e del fenomeno (le «foglie inseguite per sempre dal vento») che avvince l’ultimo sguardo al primo per «riavere ciò che ho perso / l’illusione / il rumore del vuoto». Da tutto il libro emerge, nel complesso, una dolce prospettiva di speranza: quel sentirsi «salvi / a dispetto del destino / a dispetto di un corpo che si riduce» perché resta, sì, tutto il dolore del mondo, ma «nulla è perso per sempre». Da cui l’invito “leopardiano” alla solidarietà, all’alleanza reciproca degli esseri viventi: «Piccio, stringiamo la vita fra noi / senza fessure / come chi pensa di non essere morto / per quando non ci sarà, ora che c’è».
Nessun commento:
Posta un commento