“La parola
detta” (Ed. La Vita Felice – 2017)- Lettura di Tiziana Marini
La nuova
raccolta di poesie di Stefania Di Lino dal titolo “La parola detta” (prefazione
di Cinzia Marulli - Ed. La Vita Felice, 2017), trova già nel titolo il suo
significato più profondo. Quando una parola e’ stata detta infatti è difficile
cancellarla o modificarla perché la parola opera sulla realtà, sia fisica che
psichica, una trasformazione
irreversibile, come il fuoco sulla carta e anzi, in quanto verbum o logos, è creatrice
e si identifica con la divinità stessa. La parola costruisce cosi’ una trama, una ragnatela di
rapporti, legami che si intersecano come i meridiani e i paralleli, e al tempo
stesso è mongolfiera che ci fa volare “dopo
aver rosicchiato le corde” che ci legano al suolo, come afferma la Di Lino
stessa in una poesia della raccolta, ricordandoci così la poesia di Mario Luzi “Vola alta parola...” (e la parola di Stefania
vola altissima!) in cui proprio la parola
è chiamata a raggiungere gli estremi opposti nadir e zenit per indagare l’anima
mundi, per mettere in contatto il poeta
con se stesso e con gli altri e gli altri con gli altri, trovandoli e
raccontandoli tutti nell’interiorità della propria coscienza. E questo è un libro che
parla di coscienza alla coscienza con le parole dell’inconscio, sintonizzando
ogni elemento, ogni respiro con le frequenze etiche dell’universo “….volare alto trasformando in ali le dita”
dice ancora la Di Lino, con una fisicità intensa e presente continuamente nella
raccolta, dapprima come seme orizzontale deposto nella zolla e poi come albero verticalmente
proteso verso il cielo “…orizzontale
dunque fui / e parallela alla terra / ma verticale è la pianta nata / che in
alto il suo stelo tende / ed è albero che come mani / in alto allunga i suoi
rami …”.
Questa seconda
raccolta, preceduta da “Percorsi di
vetro” (de-Comporre Ed. 2012) è ancora un viaggio, ma questa volta nella
verticalità di se stessi, un viaggio sincronico dove si possono ritrovare vari
archetipi, primi fra tutti quelli della Grande Madre e della Madre Terra con il
ciclo di morte e rinascita, ma anche l’istinto
e l’emozione.
Dal punto
di vista strettamente strutturale le poesie mancano di titolo e il loro inizio
e la loro fine non sempre coincidono con l’inizio e la fine reali, sono
segmenti su una retta infinita, parti di un pensiero fertile che
improvvisamente (ma frutto di grande lavoro!) prende forma sul foglio, affiorando
dalle profondita’ del nostro “inner eye”, un pò come i percorsi sotterranei
delle acque, un pò come le battute musicali, visto anche l’uso di slash di separazione,
sempre inserite in una partitura ben più grande che in questo caso coincide con
la vita.
Certo è che
le poesie di questa raccolta della Di Lino scavano per davvero in ogni profondità
sia del corpo che dell’anima, sono semi nelle zolle che germogliano come lei
stessa afferma nella sua dichiarazione di poetica “porto un Dio dentro /dannato e bello / che coltiva pazientemente la mia
cesura / la semina mi rende fertile / così fiorisce la mia scrittura”.
Ma quali
sono le parole dette alle quali fa riferimento la Di Lino? Sicuramente quelle
taciute “…perché dall’alto / di ogni priorità muta / si trova il nido della parola taciuta…”,
quelle sollevate “…si aprano al cielo e
al vento / le parole sollevate dal fango / commistione pura della terra / che
talvolta radici vanno recise…”, quelle date “…ci sarà nell’aria / un lascito
d’amore / un vento nuovo / pulito di odore / che porta in sé la parola data...”,
quelle buone “Cambierai / e lo farai
attraversando lo specchio / spinta dal vento / e da una carezza di parole
buone...”, quelle ritrovate “…tornerà presto il tempo / della parola
ritrovata e detta / quando l’assenza
sarà seduta /ogni parola sarà per vocazione / ogni radice terra vicinanza,…”,
quelle in attesa di essere scritte “…e
sempre rimane qualche parola / nell’angolo cavo di un pensiero / non si tramuta
in lingua denti o bocca / è lì che lenta matura / silenziosa parola che aspetta
scrittura.”, quelle offerte “…e le
parole offerte che non crebbero mai / per farsi radici…”. E ancora le parole
“che
se pronunciate / slittano / su uno stupido amoroso accento …”, e le parole ritrovate “…sempre spinte dal vento...”. Ma soprattutto ci sono le parole scritte col sangue, nate dall’anatomia
fisica del dolore, pezzi sofferenti del nostro corpo che ci guariscono come
medicine perché la guarigione passa per la sofferenza “…se solo tu scrivessi col tuo sangue / che sgorga da un dolore che non
passa…i versi sarebbero salvezza, unguento / diventerebbero certezza,
medicamento,” e dalla consapevolezza
di dover ripulire la nostra coscienza dai piccoli omicidi compiuti quotidianamente “…e son fiotti di sangue schizzati / sulle
piastrelle nuove / della cucina / che fatica stamattina / dover ripulire le
tracce lasciate / dai piccoli omicidi efferati / perpetrati da ogni giorno che
passa,” siano essi involontari così come frutto della scelta precisa di
affidare alla parola poetica il compito di fare, per dirla con le parole della Di Lino, da cecchino, appostandosi per uccidere la prepotenza e l’ingiustizia del
mondo. Non certo per la gloria, ci dice la nostra Autrice, ma solo perché la parola poetica è un’arma più
efficace di qualsiasi altra arma poiché lavora alla radice, partendo dal cuore
delle cose “e di primo mattino / piazzato
su un grattacielo / da vero cecchino / avrei preso la mira con calma / sarei
passata alla storia / almeno azzoppando / con freddezza di colpi / una dozzina
di esemplari / della famelica dinastia dei Tirannosaurus rex / poi invece ho
scritto una poesia / così nessuno saprà niente di me,…”.
La Di Lino
ci offre così una visione forte, a volte
iperrealistica, venata di ironia, tratteggiata con i contorni decisi della sua pittura e della
sua scultura e sempre dolorosa dei nostri tempi sottolineando che alla fine ciò che davvero uccide non sono
le armi, fucili o parole che siano, bensì la mancanza d’amore “…che il morire vero è laddove mai è stato
amore…” e che, come ci dice in altri bellissimi versi ci si salva insieme
“…dimmi che ci salveremo / mano nella mano…” prendendo coscienza
dell’altro e dei nostri doveri al presente
“…c’è sempre una guerra da
smettere / e l’amore da fare “ e al futuro “…avremo ancora sguardi / da donare al mondo...” in una dimensione di
grande umanità e respiro sociale. E tutto questo è possibile secondo la nostra
Autrice, non seguendo le ragioni del
cuore o dell’intelletto, benché
necessarie, ma quelle del tempo e dell’impegno costante, in un sentire che la
porta ad unire in un unico abbraccio i suoi figli, auspicando per loro un
destino felice “…vi parlo dei miei figli
/ che furono bambini / quelli impastati dal sangue nella terra / non fatti per
morire degli altri la guerra / ma per costruire felici i loro destini,” e i
figli del mondo poiché “le genti non appartengono mai / a un solo
posto / mille latitudini attraversano… ed …è solo con le scie disperate
lasciate dal loro passo / compasso che si ha l’esatta misura del mondo”.
Tutto questo sarà possibile ma “bisognerà contarci / guardarci negli occhi e
tenerci stretti / e credere credere /
nelle ragioni del tempo,” smussando gli angoli del centro, i dissidi
più profondi che minano il nucleo dell’umano agire perché l’angolo è la sola
certezza “…scommetti tutto te stesso /
nell’ordine apparente / delle tue ritrovate simmetrie / e non ti accorgi che /
delle tue geometrie / rimane solo la certezza dell’angolo,”.
Ma è
navigando nella geografia del corpo, un corpo che diventa palcoscenico per
organi/attori che le parole di Stefania diventano grido che racconta di madri “Ho visto mia madre invecchiare / consumarsi
/ nel sempre più ristretto ambito delle sue clavicole….” e di nascite “carne di amorevole carne / mentre scivolavi via dal mio corpo / io la
tua prima frontiera / tu il mio canto nel mondo “, di amore “…Una
volta mi disse / “ti voglio bene, non te l’ho mai detto / io ti voglio bene /
ma eri così diversa da me / e io non ce l’ho fatta…”.” e di figli ”tu che mi guizzavi dentro / argenteo
pesciolino / tu che ora affronti il mondo / con le mani di un pianista / e gli
occhi scuri / furiosi di tuo padre “, passando per l’attimo senza tempo della
consapevolezza.
Tanti i
temi, dunque, di questa bella raccolta di poesie di Stefania Di Lino (molti
spetterà al lettore scoprirli), temi
che, come in un gioco di specchi, tanti
altri ne riflettono all’infinito. Tutti però concorrono a sottolineare l’importanza
della parola detta, soprattutto poetica, in tutte le sue molteplici modalità. Se
Montale in una sua celebre poesia “Non
chiederci parola” affermava che la
parola può dirci solo “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, e se Ungaretti la riconosceva, questa parola, “impotente”
e capace solo di ”avvicinarci al segreto che è in noi”, la nostra Autrice
invece crede fermamente nel potere della
parola che è catartico, ecumenico e a suo modo rivoluzionario. E questa
raccolta ne e’ la testimonianza.
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