martedì 13 ottobre 2020

''Le cose del mondo'' di Paolo Ruffilli, ovvero l'universo fuori e dentro di noi





 

''Le cose del mondo '' (Mondadori, 2019) è l’ultima raccolta poetica del poeta, scrittore,  saggista e traduttore Paolo Ruffilli, un libro frutto di un lungo cammino artistico e personale. Mai come oggi le ''cose del mondo'' ci sfuggono ed appare evidente e necessario recuperarle quali coordinate di individuazione  della nostra vita, una specie di geolocalizzazione   per mezzo della quale rivederne i percorsi e approntarne di nuovi. In un tempo di profonde mancanze sono infatti proprio  le ''cose'' e le relazioni che vi intercorrono a definirci ancor più per ciò che siamo, a renderci riconoscibili a noi stessi allorché cerchiamo per loro un posto e un significato nella quotidianità e li trasformiamo  in  punti di riferimento. Queste ''cose'' che costituiscono il mondo fuori e dentro di noi non sono solo oggetti, ma anche ricordi, desideri, sentimenti che, parlando di noi, cose fra le cose, diventano forme, idee, mezzo di conoscenza, la nostra ''anatomia'' e il nostro palcoscenico. Ci raccontano un mondo che esiste da e per noi ma anche senza di noi, tutte dispiegate, nei testi bellissimi della silloge, in un ritmico e musicale tempo presente, pragmatico ed eterno, come a voler dire che  ''le cose del mondo '' vivono anche oltre la loro inevitabile fine, oltre il loro destino, in un presente dilatato, denso e profondo, grazie alla parola poetica che dà concretezza, consolazione e conferisce, a suo modo, eternità per quella virtù, magica e rituale a un tempo, che ha in sé. 

Nelle sei sezioni che organicamente strutturano il libro in un compatto e solido canzoniere con innumerevoli livelli di corrispondenze e piani di lettura (Nell’atto di partire, Morale della favola, La notte bianca, Le cose del mondo, Atlante anatomico, Lingua di fuoco), le iniziali poesie improntate al tema del viaggio, lasciano gradualmente il posto  a quelle metafisiche dell'ultima parte per un processo di  interiorizzazione che è viaggio nel viaggio, diacronico e sincronico, un percorso epico di trasformazione,  in cui le cose del mondo aggiungono alla loro minuziosa concretezza, senza mai perderla, una certa astrazione,  valore al valore, tanto da diventare alla fine  simboli e dimensioni  psichiche universali  di ansie e paure,  di incertezze ed esperienze, di conflitti e contraddizioni, derivanti naturalmente dai grandi temi della vita e dai rapporti umani, senza destabilizzazione, ma con grande forza, sorretti da realismo, fiducia nella ragione,  ironia e musicalità del verso. Versi limpidi, originali, intensi e incisivi, dunque, misurati e accordati fra loro come le  partiture di un concerto.

C’è davvero tanta bellezza in questo libro, la consapevolezza dell’uomo e del poeta, le fragilità, la tenerezza del padre, l’entusiasmo, la voglia di conoscenza, le domande e anche il disincanto che deriva dalla comprensione, insomma, per concludere questa breve lettura, nei versi di Ruffilli, c’è tutto quello che vogliamo dalla poesia.

 

 

Paolo Ruffilli è poeta e saggista, collaboratore di pagine culturali e consulente editoriale. Tra le sue opere ricordiamo: La quercia delle gazze (Editrice Forum, 1972), Piccola colazione ((Garzanti, 1987), Camera oscura (Garzanti, 1992), Diario di Normandia (Amadeus, 1999), La gioia e il lutto (Marsilio, 2001). E’ inoltre romanziere e traduttore, ricordiamo i saggi  su Ippolito Nievo e Goldoni e le sue traduzioni di Gibran e Tagore. Le cose del mondo e’ la sua ultima raccolta di poesie (Mondadori, 2019)

 

 

 

Nel porsi in viaggio, prese le distanze

e tutte le misure per quello che si può,

considerato l’angolo di fuga, l’impulso

di deriva andante dentro il vuoto…

la curva sghemba della deiezione,

lo scarto imprecisato del destino.

All’imprevisto che e’ legato al moto,

la ragione ha imposto antidoto

di linee rette: orari, termini, binari.

Contro i rischi dell’ignoto.

 

 

Eccolo, il nome della cosa:

l’oggetto della mente

che e’ rimasto preso e imprigionato

appeso nei suoi stessi uncini

disteso in sogno, più e più inseguito

perduto dopo averlo conquistato

e giù disceso sciolto e ricomposto

rianimato dalla sua corrosa forma e

riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato.

 

 

La parola

 

Ha filamenti lunghi la parola,

radiche chiare e barbe nere

che pescano nell’utero del tempo

tra le melme di quel limo viscerale

che ha dato soffio e corpo musicale

alle cose ancora sconosciute

richiamandole come fuori da se stesse

dentro il ritmo franto cadenzato

di quel tutto tuttità che è strabordante

fuoco liquido eruttato dentro ognuna

riplasmata e singola entità.

 

 

Il nominare chiama e, si,

chiamando ecco che avvicina

invita ciò che chiama a farsi essenza

convocandolo a sé nella presenza.

E’ la ragione che si fa linguaggio

volto a spiegare perfino il sentimento,

musica interiore che su da sotto sale

e consegnandosi all’urto materiale

delle precipitose scaglie ondivaghe sonore

parla del suo scontrarsi per domarla

con la resistenza delle cose.

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