''Le cose del mondo '' (Mondadori, 2019) è l’ultima raccolta poetica del poeta, scrittore, saggista e traduttore Paolo Ruffilli, un libro frutto di un lungo cammino artistico e personale. Mai come oggi le ''cose del mondo'' ci sfuggono ed appare evidente e necessario recuperarle quali coordinate di individuazione della nostra vita, una specie di geolocalizzazione per mezzo della quale rivederne i percorsi e approntarne di nuovi. In un tempo di profonde mancanze sono infatti proprio le ''cose'' e le relazioni che vi intercorrono a definirci ancor più per ciò che siamo, a renderci riconoscibili a noi stessi allorché cerchiamo per loro un posto e un significato nella quotidianità e li trasformiamo in punti di riferimento. Queste ''cose'' che costituiscono il mondo fuori e dentro di noi non sono solo oggetti, ma anche ricordi, desideri, sentimenti che, parlando di noi, cose fra le cose, diventano forme, idee, mezzo di conoscenza, la nostra ''anatomia'' e il nostro palcoscenico. Ci raccontano un mondo che esiste da e per noi ma anche senza di noi, tutte dispiegate, nei testi bellissimi della silloge, in un ritmico e musicale tempo presente, pragmatico ed eterno, come a voler dire che ''le cose del mondo '' vivono anche oltre la loro inevitabile fine, oltre il loro destino, in un presente dilatato, denso e profondo, grazie alla parola poetica che dà concretezza, consolazione e conferisce, a suo modo, eternità per quella virtù, magica e rituale a un tempo, che ha in sé.
Nelle sei sezioni che organicamente strutturano il libro in un compatto e solido canzoniere con innumerevoli livelli di corrispondenze e piani di lettura (Nell’atto di partire, Morale della favola, La notte bianca, Le cose del mondo, Atlante anatomico, Lingua di fuoco), le iniziali poesie improntate al tema del viaggio, lasciano gradualmente il posto a quelle metafisiche dell'ultima parte per un processo di interiorizzazione che è viaggio nel viaggio, diacronico e sincronico, un percorso epico di trasformazione, in cui le cose del mondo aggiungono alla loro minuziosa concretezza, senza mai perderla, una certa astrazione, valore al valore, tanto da diventare alla fine simboli e dimensioni psichiche universali di ansie e paure, di incertezze ed esperienze, di conflitti e contraddizioni, derivanti naturalmente dai grandi temi della vita e dai rapporti umani, senza destabilizzazione, ma con grande forza, sorretti da realismo, fiducia nella ragione, ironia e musicalità del verso. Versi limpidi, originali, intensi e incisivi, dunque, misurati e accordati fra loro come le partiture di un concerto.
C’è davvero tanta bellezza in questo libro, la consapevolezza dell’uomo e del poeta, le fragilità, la tenerezza del padre, l’entusiasmo, la voglia di conoscenza, le domande e anche il disincanto che deriva dalla comprensione, insomma, per concludere questa breve lettura, nei versi di Ruffilli, c’è tutto quello che vogliamo dalla poesia.
Paolo Ruffilli è poeta e saggista, collaboratore di
pagine culturali e consulente editoriale. Tra le sue opere ricordiamo: La
quercia delle gazze (Editrice Forum, 1972), Piccola colazione ((Garzanti, 1987),
Camera oscura (Garzanti, 1992), Diario di Normandia (Amadeus, 1999), La gioia e
il lutto (Marsilio, 2001). E’ inoltre romanziere e traduttore, ricordiamo i saggi su Ippolito Nievo e Goldoni e le sue traduzioni
di Gibran e Tagore. Le cose del mondo e’ la sua ultima raccolta di poesie
(Mondadori, 2019)
Nel porsi in viaggio, prese le distanze
e tutte le misure
per quello che si può,
considerato
l’angolo di fuga, l’impulso
di deriva andante
dentro il vuoto…
la curva sghemba
della deiezione,
lo scarto
imprecisato del destino.
All’imprevisto che
e’ legato al moto,
la ragione ha
imposto antidoto
di linee rette:
orari, termini, binari.
Contro i rischi
dell’ignoto.
Eccolo, il nome
della cosa:
l’oggetto della
mente
che e’ rimasto
preso e imprigionato
appeso nei suoi
stessi uncini
disteso in sogno,
più e più inseguito
perduto dopo
averlo conquistato
e giù disceso
sciolto e ricomposto
rianimato dalla
sua corrosa forma e
riprecipitato
nell’imbuto dell’immaginato.
La parola
Ha filamenti
lunghi la parola,
radiche chiare e
barbe nere
che pescano
nell’utero del tempo
tra le melme di
quel limo viscerale
che ha dato soffio
e corpo musicale
alle cose ancora
sconosciute
richiamandole come
fuori da se stesse
dentro il ritmo
franto cadenzato
di quel tutto
tuttità che è strabordante
fuoco liquido
eruttato dentro ognuna
riplasmata e singola
entità.
Il nominare chiama
e, si,
chiamando ecco che
avvicina
invita ciò che
chiama a farsi essenza
convocandolo a sé
nella presenza.
E’ la ragione che
si fa linguaggio
volto a spiegare
perfino il sentimento,
musica interiore
che su da sotto sale
e consegnandosi
all’urto materiale
delle precipitose
scaglie ondivaghe sonore
parla del suo
scontrarsi per domarla
con la resistenza
delle cose.
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