sabato 15 giugno 2024

Il poeta, scrittore e saggista Marco Onofrio legge ''L'inclinazione di una foglia alla luce''

 

“L’inclinazione di una foglia alla luce”, di Tiziana Marini. Lettura critica.



https://marconofrioscrittore.wordpress.com/2024/06/14/linclinazione-di-una-foglia-alla-luce-di-tiziana-marini-lettura-critica/





Tiziana Marini è ormai – mi pare evidente – una delle migliori poetesse contemporanee. La sua crescita progressiva, su un piano di concentrazione linguistica e – a monte – di schiarimento originario dello sguardo, giunge ora a una conferma che approfondisce gli esiti già notevolissimi raggiunti ne “La farfalla di Rembrandt” (2019), grazie a questo nuovo libro, di rara limpidezza e intensità, delizioso fin dal titolo: “L’inclinazione di una foglia alla luce” (Ensemble, 2023, pp. 90, Euro 13). Un titolo che non solo apre percorsi di consentaneità, e quindi di reciproca contaminazione creativa, tra la “visione” che presiede alla poesia e quella che presiede all’arte figurativa (Tiziana è anche un’apprezzata pittrice), ma innesca rifrazioni simboliche “ad infinitum”, come le onde concentriche prodotte da un sasso in uno stagno, che la dicono lunga sul “modo” peculiare di vedere e sentire le cose “per incantamento”, da cui discende la traduzione musicale della sorgente eidetica che poi coagula sulla pagina.  

Questo libro è un piccolo miracolo di armonie: c’è un fluido luminoso che accende le parole e scorre tra di esse come argento vivo, manifestando “in fieri” la circolarità delle energie e delle trasformazioni a cui obbedisce tutto l’universo. La poesia, quand’è così, rappresenta un microcosmo organico che, pur essendo “forma”, non contamina la ricchezza originaria dell’infinito da cui viene estratta. Come un bicchiere di oceano pescato dalle acque più pulite e cristalline. E può accadere perché Tiziana Marini ha lavorato nel corso degli anni a una costante purificazione dei suoi canali spirituali e all’amplificazione delle sue “antenne ricettive”. I veri artisti non si appagano mai, la loro ricerca è sempre aperta, vigile, attiva: chi si ferma è perduto! Si percepisce infatti un percorso di affinamento e di approfondimento della coscienza, che ha gettato le premesse evolutive da cui le poesie sono sbocciate con la stessa naturalezza delle fioriture nei prati a primavera. Ogni composizione è, così, la nota intonata di un concerto: consuona e collabora all’armonia dell’opera globale. Ciò non toglie, com’è ovvio, che l’altezza degli esiti raggiunti sia poi anche il risultato di un preciso “corpo a corpo” con le singole parole, ma acciocché il “labor limae” sia efficace occorre che l’intuizione iniziale della poesia abbia saputo cogliere felicemente un lampo di rivelazione, altrimenti la poesia è – diciamo così – “stonata” in partenza. Qui sono entrate in gioco una serie di circostanze rare a verificarsi, così favorevoli (per allineamento energetico tra “dono” e gestione dello stesso, cioè tra intuizione e ragione: quella mescolanza ben dosata di natura e cultura che rende sempre talentuosa e speciale ogni forma d’arte) da rendere straordinaria e non facilmente ripetibile la bellezza che splende nei versi.   

Complimenti davvero, e vorrei iniziare il mio personale itinerario tra le molteplici “inclinazioni” di un libro così alto con la tonalità “francescana”, ricca di amore incondizionato per il creato, da cui sgorgano alcuni versi che risuonano in me particolarmente suggestivi. Il lettore ricorderà, da “A mia moglie” di Umberto Saba, vv. 13-14: «i sereni animali / che avvicinano a Dio». Ebbene, era dalla lettura del Canzoniere sabiano che attendevo di imbattermi in qualcuno con la capacità e, diciamolo pure, il coraggio di affermare la purezza sacra degli animali. Ed ecco finalmente Tiziana Marini, nella terza composizione tra quelle dedicate in memoria del gatto Fusino: «Rubo i giorni al sole per la tua corona / e già vedo in te un piccolo santo / da pregare». Chiunque abbia o abbia avuto confidenza affettiva con una bestiola adorabile come Fusino sa bene di che stiamo parlando. Li adottiamo con infinito amore per un tratto purtroppo breve della nostra vita, e li sentiamo a tutti gli effetti come “figli”. Chi non li ha o non li ha avuti, difficilmente potrà capire. Il “coraggio” nasce dalla decisione di esporsi alla derisione, e dunque alle critiche di chi – e sono molti purtroppo – considera gli animali esseri inferiori, trascurabili, incomparabili (per difetto) al bipede umano, dimenticando così che anche noi siamo animali (ma della peggior specie) e avvertendo inevitabilmente come ridicole le esternazioni commosse di chi li ama e li tratta “alla pari”.

Tutto questo per cominciare a significare che “L’inclinazione di una foglia alla luce” implica – e peraltro suggerisce fin dal titolo – una trasformazione spirituale dello sguardo, ovvero un salto evolutivo della coscienza normalmente condivisa. Anche per questo credo sia una delle opere di poesia più intense e riuscite che io abbia letto negli ultimi anni. Scrive André Gide ne “I nutrimenti terrestri”: «L’importanza sia nel tuo sguardo, non nell’oggetto su cui si posa». E infatti la poesia è anzitutto questione di sguardo: ad esempio guardare la notte «nel modo giusto / finché diventa giorno»; oppure leggere amore nel cielo stellato, che invece parrebbe a tutta prima quanto di più mostruosamente freddo, inospitale e inconcepibile ci sia dato contemplare. La “rivelazione” splende secondo una certa inclinazione alla luce: dell’oggetto e dell’osservatore. «Sia ad ogni istante la tua visione nuova», continua Gide. E affinché accada questo, lo sguardo deve “covare” lo struggimento del tempo e il doloroso amore della bellezza. Tiziana Marini scrive: «Nella cova del mio sguardo tra pena e tenerezza / come per un animale buono, deriso».     

Occorre sprofondare nei segreti della realtà, anche nelle pieghe dell’aria, negli angoli nascosti, negli spazi minimi, fino all’«ultima stanza» del percepibile, fino ad avvertire ogni sensazione come «presenza infinita» di echi che si allargano dal particolare all’universale: «come riconoscere una trama / da un’unica parola». La tela della poesia (e quindi dello sguardo da cui distilla) è «sudario paziente» che include la totalità dell’esistente, anche ciò che ogni amore esclude. Un verso come ad esempio «abbracciami negli occhi» è emblematico di questa inclusiva totalità da cui fermenta e distilla l’altezza direi anche etica del libro. Per sintonizzarsi appieno con le sue istanze è necessario muovere verso un grado “altro”, cioè diverso e superiore, di consapevolezza evolutiva («da impronta a impronta / di vita in vita / fino a me, dopo di me»), entrando in risonanza con l’intensità spirituale grazie a cui – come scrive Cristina Sparagana nella breve e fulminante Introduzione – «le stelle parlano, le foglie sono uccelli che stormiscono, le rondini ci porgono un vago, tenero sema apocalittico». Ci si riconnette, allora, con la grande lingua dimenticata, l’alfabeto cosmico primordiale che torna dall’Oceano di Tetide e si manifesta anche in questo preciso istante con le parole-essere delle cose, “sentite” per osmosi.

La vocazione pan-linguistica del libro si evince anche da certi titoli delle composizioni: ad esempio “Pentagramma terracqueo” o “L’alfabeto e il cielo”. È una realtà nascosta dietro i fenomeni e vive nello spazio del «vuoto-origine». Ecco così le foglie che «suonano tra loro parole fitte», e l’identità soggettiva che trasumanando nell’ascolto e nella contemplazione può arrivare a sentirsi come «la foglia-uccello / che impara dal suo volo». Le parole, scelte con estrema cura da Tiziana Marini, ci danno conto di un cosmo di infinita circolarità, percepito come metamorfosi. E anche di una dimensione organica (scrive a un certo punto di «prato-scrittura») che si raggiunge diventando le cose che si pensano e percepiscono: «La mia solitudine / la stessa delle pietre / degli alberi, delle fontane antiche». Naturalmente occorre fare i conti con la corta favella del linguaggio umano: le cose sfuggono alle parole, magari per scarti infinitesimi, come ad esempio «la luce che a dirla non rende / ma è vera luce». Eppure il poeta avanza lo stesso nel cuore della vita, dove affonda «come la radice di un albero / quanto tocca ciò che fu vivo / guidata dalla tenerezza». La capacità di oltrepassare, come fa il vento, il dono del presente – fino ad immaginare «un tempo senza noi / com’era prima» – non esime il poeta dalla possibilità e direi dalla necessità di affrontare il sentimento-sedimento del tempo: dal «minuto / che la luce aggiunge al giorno» dopo il 21 dicembre, al corrispondente fenomeno inverso dopo il 21 giugno («c’è ancora luce, ma già meno di ieri. / L’avresti detto a luglio?»), ovviamente considerando l’emisfero boreale. Il passato contiene tutto il futuro, e il presente tutto il passato, per cui «Ogni giorno è il primo / dei restanti / ogni minuto è già domani» così come «le ombre hanno la luce dei giorni / passati». Appartiene al poeta lo sprofondamento della superficie che lo porta a «precipitare nel diaframma / del quotidiano addio alle cose / anteprima della morte», poiché sa bene che la vita è un processo infinito di morte e rinascita, è «il vuoto di un bosco arso / che rinasce a sorpresa / per una radice salva / per un seme casuale».

Fare poesia nasce da un «grumo d’introspezione» che oltrepassa la scansione lineare del tempo spezzando le barriere, il «limite imposto dalla logica». Ma nasce anche dal «gesto umano / della comprensione» e dal rispetto della rerum natura, coi suoi cicli di semina e di «messa a dimora». Il poeta amministra nel suo rito la «cerimonia della solitudine» (come quella che celebrano gli astri palpitanti nel cielo) per suonare il «pentagramma / terracqueo del cuore» mentre ascolta nelle profondità del silenzio il «brusio sincrono del mondo» e avverte l’energia cosmica andamentale, l’impulso che muove il divenire mentre le cose «vanno nell’aria come onde di luce». La parola trasforma il mondo e costruisce universi: «tutto si muove già nella parola / da quella semplice a quella più complessa». Possiamo spostare il cielo con la sola forza dello sguardo e del pensiero. L’osservatore influisce sul fenomeno osservato, lo ha dimostrato la fisica quantistica ma lo sappiamo anche per esperienza ultrasensibile. «Pensa agli alberi / mentre li guardi cambiano colore». La poesia comincia dove si apre il regno dell’Ignoto: «Da qui iniziano i fantasmi». E dunque sentire i richiami sottili, riconoscere le cose «per misteriosa vocazione», avvertire la «fibra d’ombra / sfuggente ai più», e insomma collocarsi – per trasmutazione metafisica – entro il reticolato di una geografia invisibile che in realtà sostiene la facies visibile e “normale” delle cose apparenti.

Di conseguenza il poeta è sempre impegnato ad attaccare «le rughe / alle mancanze» di ciò che non è più, di ciò che non è ancora. Sua è anche la ferita del possibile, nel richiamo di «un’altra vita / quella dimenticata e persa / quella che avrebbe dato altri frutti / a viverla». Ecco quel particolare struggimento, la «trafittura dolce» che ci recano i versi: niente come la poesia dona la «soddisfazione / di soffrire dolcemente per il tempo passato / e per quello futuro». Lo sguardo poetico di Tiziana Marini è una «lacrima-lente / che ingrandisce gli spazi» per togliere gli ostacoli da cui è impedita la visione del vero. Questa lacrima si scontra con l’indifferenza feroce del mondo, non solo gli uomini ma anche e soprattutto la natura: ad esempio «quel punto del mare / che inghiotte ed è un olio / quando si richiude / come se niente fosse» (dove riecheggia naturalmente, dal XXVI° Canto dell’Inferno, «infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»). Al meccanicismo spietato che regola la vita su questo pianeta e il divenire del cosmo, noi opponiamo la forza del nostro disperato eppure, e quindi «Diciamo ora amore, senza aspettare». La scrittura nasce dalla preliminare accettazione delle fragilità, delle imperfezioni, delle preziose cicatrici. È il mastice dorato che incolla le fratture, è il «filo che trapassa / la cruna delle stelle», è casa, rifugio sicuro, «conchiglia eterna». Salva «ciò che sta sul palmo / un frammento, un grido». È suprema compensazione e ricomposizione dei destini, grazie a cui «ogni cosa va al suo posto»:

Resto con la penna-aratro
aggiustando le cose
in un epilogo misterioso
di uguaglianza. 

Questo libro ci ricorda intensamente che il mondo è interconnesso nella trasformazione perenne delle energie, per cui «non tutto muore / se lo ritrovi in un fiore / nel sapore dell’acqua / o in un volto». Il profondo è circolarità tra basso e alto: «un seme spaccato sul germoglio / come un taglio nel cielo». Anche il tempo è legato all’eternità («Penso che qualcosa di eterno si compia / ad ogni tuo gesto») e anche il nostro destino lascia contemplare in trasparenza una «misura / di cielo». Certo, il dolore è congenito, poiché «c’è distacco ad ogni metamorfosi», ma il poeta si sente chiamato (e chiama a sua volta) a una instancabile trasmutazione alchemica di senso contrario: «Prendiamo acqua dalla sabbia e facciamo / luce di resurrezione». Dobbiamo strappare «briciole al tempo» anche se il sapore è avvelenato dalla fine. Tutto chiede udienza al poeta, e il poeta ascolta e accoglie questi appelli, accettando di dare voce all’insolito, alle «minuscole memorie», a ciò che dimora o passa nelle più segrete pieghe degli istanti. Anche e soprattutto i fotogrammi labili e sfuggenti, come ad esempio le «ali di uccello nello specchio d’acqua / del sottovaso quando ha piovuto tanto».    

La dura legge della vita impone il continuo addio a persone, animali, oggetti, situazioni: tutto è destinato a scomparire. «Non c’è niente da fare / le cose si allontanano / per quanto strette / e non basta dire ci sarai / per sempre». Dove finiscono i morti e le loro consuetudini, l’essenza dei loro giorni terreni? Nella «parte primitiva» di chi li ha amati. L’essere umano ha la facoltà di sentire lo spazio attraverso le pareti, di immaginare il cielo attraverso i soffitti delle stanze, di esplorare il vuoto che ha sostituito la presenza fisica del corpo. E qui, per concludere, possiamo tornare all’amato Fusino: «allungo spesso la mano / sulla curva sottile dell’aria / dove ancora ti vedo / e ti accarezzo». La Poesia è quella dimensione percettiva dello spirito grazie a cui la forma invisibile del gatto, cioè la sua “presenza sottile” nel vuoto, finisce per essere più reale e vera dello spazio che occupava il suo corpo materiale. Capire e credere questo segna il confine che divide ma anche unisce il mondo della vita da quello dell’arte, ed è proprio qui che si incardina la differenza culturale che ci rende umani.   

Marco Onofrio

 

 

1 commento:

  1. Ringrazio Marco Onofrio per questo saggio dedicato a ''L'inclinazione di una foglia alla luce''. Non potrò prescindere nel mio percorso poetico futuro dalle importanti considerazioni in esso contenute.E' il mio punto d'arrivo e ripartenza del mio viaggio nella poesia.

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