“L’inclinazione di una foglia alla luce”, di Tiziana
Marini. Lettura critica.
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Tiziana Marini è ormai
– mi pare evidente – una delle migliori poetesse contemporanee. La sua crescita
progressiva, su un piano di concentrazione linguistica e – a monte – di
schiarimento originario dello sguardo, giunge ora a una conferma che
approfondisce gli esiti già notevolissimi raggiunti ne “La farfalla di
Rembrandt” (2019), grazie a questo nuovo libro, di rara limpidezza e intensità,
delizioso fin dal titolo: “L’inclinazione di una foglia alla luce” (Ensemble,
2023, pp. 90, Euro 13). Un titolo che non solo apre percorsi di consentaneità,
e quindi di reciproca contaminazione creativa, tra la “visione” che presiede
alla poesia e quella che presiede all’arte figurativa (Tiziana è anche
un’apprezzata pittrice), ma innesca rifrazioni simboliche “ad infinitum”, come
le onde concentriche prodotte da un sasso in uno stagno, che la dicono lunga
sul “modo” peculiare di vedere e sentire le cose “per incantamento”, da cui
discende la traduzione musicale della sorgente eidetica che poi coagula sulla
pagina.
Questo libro è un
piccolo miracolo di armonie: c’è un fluido luminoso che accende le parole e
scorre tra di esse come argento vivo, manifestando “in fieri” la circolarità
delle energie e delle trasformazioni a cui obbedisce tutto l’universo. La
poesia, quand’è così, rappresenta un microcosmo organico che, pur essendo
“forma”, non contamina la ricchezza originaria dell’infinito da cui viene
estratta. Come un bicchiere di oceano pescato dalle acque più pulite e
cristalline. E può accadere perché Tiziana Marini ha lavorato nel corso degli
anni a una costante purificazione dei suoi canali spirituali e
all’amplificazione delle sue “antenne ricettive”. I veri artisti non si
appagano mai, la loro ricerca è sempre aperta, vigile, attiva: chi si ferma è
perduto! Si percepisce infatti un percorso di affinamento e di approfondimento
della coscienza, che ha gettato le premesse evolutive da cui le poesie sono
sbocciate con la stessa naturalezza delle fioriture nei prati a primavera. Ogni
composizione è, così, la nota intonata di un concerto: consuona e collabora
all’armonia dell’opera globale. Ciò non toglie, com’è ovvio, che l’altezza
degli esiti raggiunti sia poi anche il risultato di un preciso “corpo a corpo”
con le singole parole, ma acciocché il “labor limae” sia efficace occorre che
l’intuizione iniziale della poesia abbia saputo cogliere felicemente un lampo
di rivelazione, altrimenti la poesia è – diciamo così – “stonata” in partenza.
Qui sono entrate in gioco una serie di circostanze rare a verificarsi, così favorevoli
(per allineamento energetico tra “dono” e gestione dello stesso, cioè tra
intuizione e ragione: quella mescolanza ben dosata di natura e cultura che
rende sempre talentuosa e speciale ogni forma d’arte) da rendere straordinaria
e non facilmente ripetibile la bellezza che splende nei versi.
Complimenti davvero, e
vorrei iniziare il mio personale itinerario tra le molteplici “inclinazioni” di
un libro così alto con la tonalità “francescana”, ricca di amore incondizionato
per il creato, da cui sgorgano alcuni versi che risuonano in me particolarmente
suggestivi. Il lettore ricorderà, da “A mia moglie” di Umberto Saba, vv. 13-14:
«i sereni animali / che avvicinano a Dio». Ebbene, era dalla lettura del Canzoniere sabiano che attendevo di imbattermi in qualcuno con la capacità e,
diciamolo pure, il coraggio di affermare la purezza sacra degli animali. Ed
ecco finalmente Tiziana Marini, nella terza composizione tra quelle dedicate in
memoria del gatto Fusino: «Rubo i giorni al sole per la tua corona / e già vedo
in te un piccolo santo / da pregare». Chiunque abbia o abbia avuto confidenza
affettiva con una bestiola adorabile come Fusino sa bene di che stiamo
parlando. Li adottiamo con infinito amore per un tratto purtroppo breve della
nostra vita, e li sentiamo a tutti gli effetti come “figli”. Chi non li ha o
non li ha avuti, difficilmente potrà capire. Il “coraggio” nasce dalla
decisione di esporsi alla derisione, e dunque alle critiche di chi – e sono
molti purtroppo – considera gli animali esseri inferiori, trascurabili,
incomparabili (per difetto) al bipede umano, dimenticando così che anche noi
siamo animali (ma della peggior specie) e avvertendo inevitabilmente come ridicole le esternazioni commosse di chi li ama e li tratta “alla pari”.
Tutto questo per
cominciare a significare che “L’inclinazione di una foglia alla luce” implica –
e peraltro suggerisce fin dal titolo – una trasformazione spirituale dello
sguardo, ovvero un salto evolutivo della coscienza normalmente condivisa. Anche
per questo credo sia una delle opere di poesia più intense e riuscite che io
abbia letto negli ultimi anni. Scrive André Gide ne “I nutrimenti terrestri”:
«L’importanza sia nel tuo sguardo, non nell’oggetto su cui si posa». E infatti
la poesia è anzitutto questione di sguardo: ad esempio guardare la notte «nel
modo giusto / finché diventa giorno»; oppure leggere amore nel cielo stellato,
che invece parrebbe a tutta prima quanto di più mostruosamente freddo,
inospitale e inconcepibile ci sia dato contemplare. La “rivelazione” splende
secondo una certa inclinazione alla luce: dell’oggetto e dell’osservatore. «Sia
ad ogni istante la tua visione nuova», continua Gide. E affinché accada questo,
lo sguardo deve “covare” lo struggimento del tempo e il doloroso amore della
bellezza. Tiziana Marini scrive: «Nella cova del mio sguardo tra pena e
tenerezza / come per un animale buono, deriso».
Occorre sprofondare
nei segreti della realtà, anche nelle pieghe dell’aria, negli angoli nascosti,
negli spazi minimi, fino all’«ultima stanza» del percepibile, fino ad avvertire
ogni sensazione come «presenza infinita» di echi che si allargano dal
particolare all’universale: «come riconoscere una trama / da un’unica parola».
La tela della poesia (e quindi dello sguardo da cui distilla) è «sudario
paziente» che include la totalità dell’esistente, anche ciò che ogni amore
esclude. Un verso come ad esempio «abbracciami negli occhi» è emblematico di
questa inclusiva totalità da cui fermenta e distilla l’altezza direi anche
etica del libro. Per sintonizzarsi appieno con le sue istanze è necessario
muovere verso un grado “altro”, cioè diverso e superiore, di consapevolezza
evolutiva («da impronta a impronta / di vita in vita / fino a me, dopo di me»),
entrando in risonanza con l’intensità spirituale grazie a cui – come scrive
Cristina Sparagana nella breve e fulminante Introduzione – «le stelle parlano,
le foglie sono uccelli che stormiscono, le rondini ci porgono un vago, tenero
sema apocalittico». Ci si riconnette, allora, con la grande lingua dimenticata,
l’alfabeto cosmico primordiale che torna dall’Oceano di Tetide e si manifesta
anche in questo preciso istante con le parole-essere delle cose, “sentite” per
osmosi.
La vocazione
pan-linguistica del libro si evince anche da certi titoli delle composizioni:
ad esempio “Pentagramma terracqueo” o “L’alfabeto e il cielo”. È una realtà
nascosta dietro i fenomeni e vive nello spazio del «vuoto-origine». Ecco così
le foglie che «suonano tra loro parole fitte», e l’identità soggettiva che
trasumanando nell’ascolto e nella contemplazione può arrivare a sentirsi come
«la foglia-uccello / che impara dal suo volo». Le parole, scelte con estrema
cura da Tiziana Marini, ci danno conto di un cosmo di infinita circolarità,
percepito come metamorfosi. E anche di una
dimensione organica (scrive a un certo punto di «prato-scrittura») che si
raggiunge diventando le cose che si pensano e percepiscono: «La mia solitudine
/ la stessa delle pietre / degli alberi, delle fontane antiche». Naturalmente
occorre fare i conti con la corta favella del linguaggio
umano: le cose sfuggono alle parole, magari per scarti infinitesimi, come ad
esempio «la luce che a dirla non rende / ma è vera luce». Eppure il poeta
avanza lo stesso nel cuore della vita, dove affonda «come la radice di un
albero / quanto tocca ciò che fu vivo / guidata dalla tenerezza». La capacità
di oltrepassare, come fa il vento, il dono del presente – fino ad immaginare
«un tempo senza noi / com’era prima» – non esime il poeta dalla possibilità e
direi dalla necessità di affrontare il sentimento-sedimento del tempo: dal
«minuto / che la luce aggiunge al giorno» dopo il 21 dicembre, al
corrispondente fenomeno inverso dopo il 21 giugno («c’è ancora luce, ma già
meno di ieri. / L’avresti detto a luglio?»), ovviamente considerando l’emisfero
boreale. Il passato contiene tutto il futuro, e il presente tutto il passato,
per cui «Ogni giorno è il primo / dei restanti / ogni minuto è già domani» così
come «le ombre hanno la luce dei giorni / passati». Appartiene al poeta lo
sprofondamento della superficie che lo porta a «precipitare nel diaframma / del
quotidiano addio alle cose / anteprima della morte», poiché sa bene che la vita
è un processo infinito di morte e rinascita, è «il vuoto di un bosco arso / che
rinasce a sorpresa / per una radice salva / per un seme casuale».
Fare poesia nasce da
un «grumo d’introspezione» che oltrepassa la scansione lineare del tempo
spezzando le barriere, il «limite imposto dalla logica». Ma nasce anche dal
«gesto umano / della comprensione» e dal rispetto della rerum natura, coi suoi cicli di semina e di «messa a dimora». Il poeta amministra nel
suo rito la «cerimonia della solitudine» (come quella che celebrano gli astri
palpitanti nel cielo) per suonare il «pentagramma / terracqueo del cuore»
mentre ascolta nelle profondità del silenzio il «brusio sincrono del mondo» e
avverte l’energia cosmica andamentale, l’impulso che muove il divenire mentre
le cose «vanno nell’aria come onde di luce». La parola trasforma il mondo e
costruisce universi: «tutto si muove già nella parola / da quella semplice a
quella più complessa». Possiamo spostare il cielo con la sola forza dello
sguardo e del pensiero. L’osservatore influisce sul fenomeno osservato, lo ha
dimostrato la fisica quantistica ma lo sappiamo anche per esperienza
ultrasensibile. «Pensa agli alberi / mentre li guardi cambiano colore». La
poesia comincia dove si apre il regno dell’Ignoto: «Da qui iniziano i
fantasmi». E dunque sentire i richiami sottili, riconoscere le cose «per
misteriosa vocazione», avvertire la «fibra d’ombra / sfuggente ai più», e
insomma collocarsi – per trasmutazione metafisica – entro il reticolato di una
geografia invisibile che in realtà sostiene la facies visibile e “normale” delle cose apparenti.
Di conseguenza il
poeta è sempre impegnato ad attaccare «le rughe / alle mancanze» di ciò che non
è più, di ciò che non è ancora. Sua è anche la ferita del possibile, nel
richiamo di «un’altra vita / quella dimenticata e persa / quella che avrebbe dato
altri frutti / a viverla». Ecco quel particolare struggimento, la «trafittura
dolce» che ci recano i versi: niente come la poesia dona la «soddisfazione / di
soffrire dolcemente per il tempo passato / e per quello futuro». Lo sguardo
poetico di Tiziana Marini è una «lacrima-lente / che ingrandisce gli spazi» per
togliere gli ostacoli da cui è impedita la visione del vero. Questa lacrima si
scontra con l’indifferenza feroce del mondo, non solo gli uomini ma anche e
soprattutto la natura: ad esempio «quel punto del mare / che inghiotte ed è un
olio / quando si richiude / come se niente fosse» (dove riecheggia
naturalmente, dal XXVI° Canto dell’Inferno, «infin che ‘l mar fu sovra noi
richiuso»). Al meccanicismo spietato che regola la vita su questo pianeta e il
divenire del cosmo, noi opponiamo la forza del nostro disperato eppure, e quindi «Diciamo ora amore, senza aspettare». La scrittura nasce dalla
preliminare accettazione delle fragilità, delle imperfezioni, delle preziose
cicatrici. È il mastice dorato che incolla le fratture, è il «filo che trapassa
/ la cruna delle stelle», è casa, rifugio sicuro, «conchiglia eterna». Salva
«ciò che sta sul palmo / un frammento, un grido». È suprema compensazione e
ricomposizione dei destini, grazie a cui «ogni cosa va al suo posto»:
Resto con la
penna-aratro
aggiustando le cose
in un epilogo misterioso
di uguaglianza.
Questo libro ci ricorda intensamente che il mondo è interconnesso nella
trasformazione perenne delle energie, per cui «non tutto muore / se lo ritrovi
in un fiore / nel sapore dell’acqua / o in un volto». Il profondo è circolarità
tra basso e alto: «un seme spaccato sul germoglio / come un taglio nel cielo».
Anche il tempo è legato all’eternità («Penso che qualcosa di eterno si compia /
ad ogni tuo gesto») e anche il nostro destino lascia contemplare in trasparenza
una «misura / di cielo». Certo, il dolore è congenito, poiché «c’è distacco ad
ogni metamorfosi», ma il poeta si sente chiamato (e chiama a sua volta) a una
instancabile trasmutazione alchemica di senso contrario: «Prendiamo acqua dalla
sabbia e facciamo / luce di resurrezione». Dobbiamo strappare «briciole al
tempo» anche se il sapore è avvelenato dalla fine. Tutto chiede udienza al
poeta, e il poeta ascolta e accoglie questi appelli, accettando di dare voce
all’insolito, alle «minuscole memorie», a ciò che dimora o passa nelle più
segrete pieghe degli istanti. Anche e soprattutto i fotogrammi labili e
sfuggenti, come ad esempio le «ali di uccello nello specchio d’acqua / del
sottovaso quando ha piovuto tanto».
La dura legge della
vita impone il continuo addio a persone, animali, oggetti, situazioni: tutto è
destinato a scomparire. «Non c’è niente da fare / le cose si allontanano / per
quanto strette / e non basta dire ci sarai / per sempre». Dove finiscono i
morti e le loro consuetudini, l’essenza dei loro giorni terreni? Nella «parte
primitiva» di chi li ha amati. L’essere umano ha la facoltà di sentire lo
spazio attraverso le pareti, di immaginare il cielo attraverso i soffitti delle
stanze, di esplorare il vuoto che ha sostituito la presenza fisica del corpo. E
qui, per concludere, possiamo tornare all’amato Fusino: «allungo spesso la mano
/ sulla curva sottile dell’aria / dove ancora ti vedo / e ti accarezzo». La
Poesia è quella dimensione percettiva dello spirito grazie a cui la forma
invisibile del gatto, cioè la sua “presenza sottile” nel vuoto, finisce per
essere più reale e vera dello spazio che occupava il suo corpo materiale.
Capire e credere questo segna il confine che divide ma anche unisce il mondo
della vita da quello dell’arte, ed è proprio qui che si incardina la differenza
culturale che ci rende umani.
Marco Onofrio